Sulla scia di Vaia
Il prima si ferma in un week end di fine ottobre, fra i prati ingialliti del Passo Pordoi. L’aria frizzante muoveva i fili d’erba secca e i raggi del sole già si piegavano ad accarezzare lo spettacolo dei larici, puntuale come ogni anno. I turisti si erano ritirati alle loro vite, e noi camminavamo sotto il cielo blu, immersi in un silenzio assoluto e surreale. Non eravamo abituati a quella luce più debole e pure più carica di calore della nuova stagione: avevamo sempre vissuto le nostre montagne in estate, quando i fiori sbocciano in ritardo, e, come se sapessero che il tempo a loro disposizione è breve, indossano gli abiti migliori, in un tripudio di tinte senza eguali. L’autunno, infatti, in montagna arriva prima, con prepotenza, e la sua luce languida è il preludio di un saluto; quello fu il nostro arrivederci alle montagne, l’ultimo giorno dell’anno a Fodom.
[Mas di Sedico, 24 ottobre 2018]
Non ha propriamente a che vedere con Vaia, ma è stato, per il mio sentire, il presagio dei giorni difficili che sarebbero arrivati. Avevo recuperato le bimbe dai nonni, tornando dal lavoro, e mi barcamenavo tra le faccende di casa con la piccola in groppa. Era inquieta, e la magia del marsupio l’aveva fatta addormentare. Aurora invece, che non aveva ancora tre anni, stava disegnando, china sul tavolo della cucina, con la boccuccia aperta fra le guance paffute - espressione adorabile di massima concentrazione - .
“Mamma guarda, ho disegnato un sole di fuoco - arancione,
con al centro una nota di viola -, le nuvole nere e sotto l’acqua - delle curve azzurre - e la legna - macchie marroni - “ . Mi stavo complimentando con lei
per la sua opera d'arte, quando mi resi conto che c’era qualcosa di strano. La
luce, sì, la luce! Scostai la tenda dalla finestra e vidi che, nonostante il
vento ci stesse tormentando da un po’, in cielo si erano formati dei grossi
nuvoloni color arancio e il sole, che filtrava attraverso di essi, pareva
proprio una palla infuocata. La temperatura si era alzata di colpo - il termometro
esterno segnava 26° C -, e quando uscimmo in terrazzo per vedere meglio, ci
ritrovammo avvolte in un’atmosfera surreale, dal sapore quasi apocalittico. Dopo
l’iniziale stupore, venimmo a sapere che si trattava del fumo proveniente da un
grosso incendio scoppiato in valle di San Lucano. Non tardò a farsi sentire
anche l’odore di bruciato. Gli agordini di Taibon non sapevano che a quella si
sarebbe presto aggiunta un’altra perniciosa catastrofe.
Io non sapevo che, guardando gli occhi nocciola di Aurora,
il sentimento di meraviglia mista a venerazione che provavo, sarebbe cresciuto
nei giorni a venire.
[Mas di Sedico, 29 ottobre 2018]
Eravamo al riparo, nella nostra casa. Fuori infuriava la
bufera e io stavo realizzando che le diavolerie della tecnologia sarebbero
potute tornare utili nei lunghi pomeriggi invernali: le bambine si stavano
scatenando con la baby dance mentre preparavo la cena, per una volta senza
nessuno aggrappato alle gambe. Fabio era in cantina ad allenarsi e, nonostante
avessimo passato le ultime ore a controllare i bollettini meteo, non ci
rendevamo davvero conto di ciò che stava accadendo. Ormai quasi avvezzi ad
eventi climatici eccezionali, non eravamo particolarmente in apprensione:
nessuno poteva immaginarsi una cosa del genere. Eravamo pronti a un’alluvione,
ma non alla violenza del vento - che qui da noi, nel nostro paesino, tutto
sommato non era stato più forte di altre volte -, né tanto meno ai danni che
avrebbe provocato e sarebbero andati a sommarsi a quelli causati dal diluvio
che si rovesciava su di noi ormai da giorni. All’improvviso saltò la corrente,
saltò internet, saltarono le connessioni dei cellulari. Eravamo al buio e le
piccole si erano un po’ spaventate, prima che arrivasse la magia delle candele.
Adoro le candele, anche se da quando ci sono le bimbe le accendo di rado.
Quella sera le loro fiammelle danzavano sulle pareti e sembravano innalzarsi
nelle preghiere che la mia nonna
recitava quando, durante i temporali, arrivava la grandine. Funzionava così:
appena sentiva picchiettare al suolo, la nonna correva a prendere una candela
benedetta e un rametto di ulivo e pregava il buon Dio perché risparmiasse il
raccolto. Io ricordo bene come era il mondo prima degli smartphone, dei mille
giga al minuto, del sempre e ovunque connessi. Che cosa stavano facendo i
giovani in quel momento? Come si sentivano, se anche noi eravamo smarriti?
I colpi sordi delle folate ci facevano guardare negli occhi.
Mentre le montagne venivano denudate dei loro alberi secolari, noi ci
spogliavamo di millenni di progresso per ritrovarci stretti nelle nostre
grotte, con le fiaccole accese a rischiarare la paura ancestrale che bussava
alla porta. Non vedevo l’ora di mettere le bimbe a dormire per cercare di
capire, per fermarmi a pensare, per parlare con Fabio, senza il timore di far
trapelare l’angoscia e l’insicurezza che tentavamo di nascondere.
Il vento cessò di soffiare all’improvviso e una strana
quiete pervase il paese, le valli.
Le bambine si addormentarono, noi non potevamo sapere che
cosa fosse successo, e ci coricammo (la giornata delle mamme e dei papà non
concede pause, e l’indomani, se non la notte stessa, dovevamo essere pronti).
Mentre stavamo distesi sul letto con gli occhi sbarrati, dalla strada cominciò
a salire un vociare sempre più concitato e ci affacciammo alla finestra: i
vicini avevano iniziato a spostare le auto, per portarle in altura, al sicuro,
qualcuno creava dei cordoni di pellet e altro materiale di fortuna in cima alle
rampe dei garages. Scese anche Fabio, per portare almeno una delle due macchine
dai suoi genitori, in collina.
Uscii sul balcone e vidi che all’altezza del ponte l’acqua
aveva iniziato a scorrere lenta lungo la statale, tirandosi appresso tronchi e
ramaglie: il Cordevole stava esondando.
Eravamo sole, i telefoni non avevano campo e Fabio non tornava -
al suo rientro mi avrebbe raccontato che era andato ad aiutare dei volontari ad
aprire i tombini per liberarli dal materiale e permettere così all’acqua di
defluire - . Mi sedetti in cucina e iniziai a scrivere per ingannare la paura,
per ricordare, un giorno, ciò che comunque non dimenticheremo mai. Ero
preoccupata per mio marito, per i nostri genitori, per gli amici che abitavano
a ridosso del torrente, appena dopo il ponte. Abituati come siamo ad essere sempre
raggiungibili era davvero difficile non poter comunicare. La penna correva al
lume di candela, quando all’improvviso ci fu un fragore, un rumore di vetri
rotti e macerie, seguito dalle urla di una donna. Credo di averla vista, doveva
essere Gloria, sorretta dal suo compagno e dagli uomini della Protezione Civile
che cercavano di allontanarla dal luogo del crollo, fuori dalla mia visuale.
Solo più tardi avrei saputo che era franata la porzione di edificio attaccata
alla sua casa: i vecchi uffici della storica impresa Roni, andati giù nel giro
di qualche secondo, e dispersi fra le onde della piena. Iniziai a tremare,
avrei voluto scendere con Fabio, essere con lui, ma non potevo. L’acqua, dopo
che si era fatta spazio, iniziò a ritirarsi. Poi lo
vidi, sul marciapiede adiacente all’appartamento di un nostro caro amico: erano
insieme, erano salvi.
[Peron, 30 ottobre 2018]
Un salto dai miei, per sapere se stessero bene. Tutto ok, a
parte la passerella: non c'era più. Ne avevamo viste di piene, negli anni.
Ricordo ancora la sensazione di vorticare sui suoi assi di legno, mentre
l’acqua color fango scorreva impetuosa sotto di noi. Di solito poi il Cordevole
rientrava nel suo letto, magari seguendo percorsi nuovi, diversi, a cui noi
ragazzi dovevamo abituarci, giusto il tempo di rimpiazzare la nostalgia con
nuovi ricordi. Quella notte però Vaia se l'era portata via. La passerella non
aveva retto ai colpi del legname che la furia dell’acqua aveva trascinato con
sé: si era spezzata. E con lei un pezzo del mio cuore.
[Fodom, giugno 2019]
Esattamente un anno fa, risalendo la valle del Cordevole,
davanti ai nostri occhi si mostrava spietata la desolazione che solo avevamo
potuto immaginare, guardando le foto, ascoltando i racconti. Era passato quasi
un anno, e questo rendeva la vista dei colli nudi ancora più amara. Non ci
saremmo mai potuti lasciare alle spalle una cosa del genere. Gli abitanti delle
zone colpite continuavano a svegliarsi ogni mattina vedendo la distruzione dal
proprio balcone e avevano dovuto accettare di convivere con uno scempio che non
si rimargina più. Noi avevamo avuto paura, quella sera, ma loro, gli uomini e
le donne della montagna? Al buio, nelle loro case, avevano sentito le foreste
abbattersi tutt’intorno, e l’indomani si erano resi conto di essere stati
graziati, pur nell’immane sciagura. È sconvolgente vedere, ancora oggi, gli
alberi schiantati a pochi centimetri dalle abitazioni: l’impressione è che una
mano invisibile abbia guidato i tronchi nel loro precipitare a terra, affinché
le scansassero. Senza luce né telefono, né acqua per giorni, completamente
isolati, con le strade interrotte, franate, gli abitanti della montagna si
erano dati da fare e si erano rialzati, mentre i nostri occhi, a distanza di
mesi, quasi non riuscivano a guardare lo strazio delle ferite ancora
sanguinanti.
Oggi torniamo a Livinallongo. I sentieri che da Costa
portano a Pieve sono stati completamente ripristinati, e li ripercorriamo per
la prima volta. Gli alberi strappati alla terra sono ancora lì, dove il vento
li aveva sbattuti, spogli e secchi, ma la natura si è prodigata per adornarli
con la sua infinita grazia: le rose selvatiche pendono dalle cataste di legna e
leniscono il dolore dei tronchi rotti che continuano a piangere lacrime di
resina.
Accanto alla memoria di chi non c’è più, fra le radici che
rimangono aggrappate a una fragile esistenza, ascoltiamo i ridolini delle
nostre bambine intente a giocare nell’acqua di una pozzanghera. E sentiamo il
profumo dei fiori mescolato all’odore forte del legno; percepiamo la leggerezza
dell’aria, il palpitare della vita che continua, inarrestabile.
Ci si abitua a tutto, o forse è solo il tempo, che permette alla bellezza di farsi riconoscere fra i resti della tragedia, di ricamarne le cicatrici. È la montagna, che le mostra con orgoglio, fiera e tenace come il suo popolo.
Però di là del Cordevole, verso Ornella c è un larice che cresce lentamente e che inneggia alla vita.
RispondiEliminaVero ❤️ E crescerà con almeno 45 anni di amore a concimarlo ❤️
EliminaRivivere quel dramma attraverso le tue parole, mi ha commosso.
RispondiEliminaQuanti sentimenti contrastanti affiorano,
rivivendo leggendo....
Son passati 2 anni e la natura cerca di nascondere lo scempio facendo nascere nuovi fiori tra quei tronchi abbattuti.
Siamo ritornati connessi, la montagna col suo carico di distrazione è lassù, lontana da noi che a valle abbiamo ripreso la vita di sempre.
Ci voleva proprio questo racconto per farci nuovamente riflettere sul grande dono della natura che noi dobbiamo reimparare a rispettare e non stravolgerla con progetti speculativi atti solo ad accrescere il proprio interesse .
Stupendo il disegno di Aurora