Sulla scia di Vaia

Ci si abitua a tutto. Sembra impossibile, ma è proprio così. I nostri occhi si sono abituati a vedere gli amati boschi divelti dal suolo e i profili delle montagne stravolti, ma anche, tuttavia, a ritrovare fra le rovine una parte della magnificenza che prima di Vaia davamo per scontata. Perché ci sono un prima e un dopo Vaia nella nostra storia, dalla notte più lunga e buia di cui abbiamo ricordo.




[Passo Pordoi, 21 ottobre 2018)

Il prima si ferma in un week end di fine ottobre, fra i prati ingialliti del Passo Pordoi. L’aria frizzante muoveva i fili d’erba secca e i raggi del sole già si piegavano ad accarezzare lo spettacolo dei larici, puntuale come ogni anno. I turisti si erano ritirati alle loro vite, e noi camminavamo sotto il cielo blu, immersi in un silenzio assoluto e surreale. Non eravamo abituati a quella luce più debole e pure più carica di calore della nuova stagione: avevamo sempre vissuto le nostre montagne in estate, quando i fiori sbocciano in ritardo, e, come se sapessero che il tempo a loro disposizione è breve, indossano gli abiti migliori, in un tripudio di tinte senza eguali. L’autunno, infatti, in montagna arriva prima, con prepotenza, e la sua luce languida è il preludio di un saluto; quello fu il nostro arrivederci alle montagne, l’ultimo giorno dell’anno a Fodom.


[Mas di Sedico, 24 ottobre 2018]

Non ha propriamente a che vedere con Vaia, ma è stato, per il mio sentire, il presagio dei giorni difficili che sarebbero arrivati. Avevo recuperato le bimbe dai nonni, tornando dal lavoro, e mi barcamenavo tra le faccende di casa con la piccola in groppa. Era inquieta, e  la magia del marsupio l’aveva fatta addormentare. Aurora invece, che non aveva ancora tre anni, stava disegnando, china sul tavolo della cucina, con la boccuccia aperta fra le guance paffute - espressione adorabile di massima concentrazione - .

“Mamma guarda, ho disegnato un sole di fuoco - arancione, con al centro una nota di viola -, le nuvole nere e sotto l’acqua - delle curve azzurre - e la legna - macchie marroni - “ . Mi stavo complimentando con lei per la sua opera d'arte, quando mi resi conto che c’era qualcosa di strano. La luce, sì, la luce! Scostai la tenda dalla finestra e vidi che, nonostante il vento ci stesse tormentando da un po’, in cielo si erano formati dei grossi nuvoloni color arancio e il sole, che filtrava attraverso di essi, pareva proprio una palla infuocata. La temperatura si era alzata di colpo - il termometro esterno segnava 26° C -, e quando uscimmo in terrazzo per vedere meglio, ci ritrovammo avvolte in un’atmosfera surreale, dal sapore quasi apocalittico. Dopo l’iniziale stupore, venimmo a sapere che si trattava del fumo proveniente da un grosso incendio scoppiato in valle di San Lucano. Non tardò a farsi sentire anche l’odore di bruciato. Gli agordini di Taibon non sapevano che a quella si sarebbe presto aggiunta un’altra perniciosa catastrofe.

Io non sapevo che, guardando gli occhi nocciola di Aurora, il sentimento di meraviglia mista a venerazione che provavo, sarebbe cresciuto nei giorni a venire.



[Mas di Sedico, 29 ottobre 2018]

Eravamo al riparo, nella nostra casa. Fuori infuriava la bufera e io stavo realizzando che le diavolerie della tecnologia sarebbero potute tornare utili nei lunghi pomeriggi invernali: le bambine si stavano scatenando con la baby dance mentre preparavo la cena, per una volta senza nessuno aggrappato alle gambe. Fabio era in cantina ad allenarsi e, nonostante avessimo passato le ultime ore a controllare i bollettini meteo, non ci rendevamo davvero conto di ciò che stava accadendo. Ormai quasi avvezzi ad eventi climatici eccezionali, non eravamo particolarmente in apprensione: nessuno poteva immaginarsi una cosa del genere. Eravamo pronti a un’alluvione, ma non alla violenza del vento - che qui da noi, nel nostro paesino, tutto sommato non era stato più forte di altre volte -, né tanto meno ai danni che avrebbe provocato e sarebbero andati a sommarsi a quelli causati dal diluvio che si rovesciava su di noi ormai da giorni. All’improvviso saltò la corrente, saltò internet, saltarono le connessioni dei cellulari. Eravamo al buio e le piccole si erano un po’ spaventate, prima che arrivasse la magia delle candele. Adoro le candele, anche se da quando ci sono le bimbe le accendo di rado. Quella sera le loro fiammelle danzavano sulle pareti e sembravano innalzarsi nelle preghiere che la mia nonna recitava quando, durante i temporali, arrivava la grandine. Funzionava così: appena sentiva picchiettare al suolo, la nonna correva a prendere una candela benedetta e un rametto di ulivo e pregava il buon Dio perché risparmiasse il raccolto. Io ricordo bene come era il mondo prima degli smartphone, dei mille giga al minuto, del sempre e ovunque connessi. Che cosa stavano facendo i giovani in quel momento? Come si sentivano, se anche noi eravamo smarriti?

I colpi sordi delle folate ci facevano guardare negli occhi. Mentre le montagne venivano denudate dei loro alberi secolari, noi ci spogliavamo di millenni di progresso per ritrovarci stretti nelle nostre grotte, con le fiaccole accese a rischiarare la paura ancestrale che bussava alla porta. Non vedevo l’ora di mettere le bimbe a dormire per cercare di capire, per fermarmi a pensare, per parlare con Fabio, senza il timore di far trapelare l’angoscia e l’insicurezza che tentavamo di nascondere.

Il vento cessò di soffiare all’improvviso e una strana quiete pervase il paese, le valli.

Le bambine si addormentarono, noi non potevamo sapere che cosa fosse successo, e ci coricammo (la giornata delle mamme e dei papà non concede pause, e l’indomani, se non la notte stessa, dovevamo essere pronti). Mentre stavamo distesi sul letto con gli occhi sbarrati, dalla strada cominciò a salire un vociare sempre più concitato e ci affacciammo alla finestra: i vicini avevano iniziato a spostare le auto, per portarle in altura, al sicuro, qualcuno creava dei cordoni di pellet e altro materiale di fortuna in cima alle rampe dei garages. Scese anche Fabio, per portare almeno una delle due macchine dai suoi genitori, in collina.

Uscii sul balcone e vidi che all’altezza del ponte l’acqua aveva iniziato a scorrere lenta lungo la statale, tirandosi appresso tronchi e ramaglie: il Cordevole stava esondando.

Eravamo sole, i telefoni non avevano campo e Fabio non tornava - al suo rientro mi avrebbe raccontato che era andato ad aiutare dei volontari ad aprire i tombini per liberarli dal materiale e permettere così all’acqua di defluire - . Mi sedetti in cucina e iniziai a scrivere per ingannare la paura, per ricordare, un giorno, ciò che comunque non dimenticheremo mai. Ero preoccupata per mio marito, per i nostri genitori, per gli amici che abitavano a ridosso del torrente, appena dopo il ponte. Abituati come siamo ad essere sempre raggiungibili era davvero difficile non poter comunicare. La penna correva al lume di candela, quando all’improvviso ci fu un fragore, un rumore di vetri rotti e macerie, seguito dalle urla di una donna. Credo di averla vista, doveva essere Gloria, sorretta dal suo compagno e dagli uomini della Protezione Civile che cercavano di allontanarla dal luogo del crollo, fuori dalla mia visuale. Solo più tardi avrei saputo che era franata la porzione di edificio attaccata alla sua casa: i vecchi uffici della storica impresa Roni, andati giù nel giro di qualche secondo, e dispersi fra le onde della piena. Iniziai a tremare, avrei voluto scendere con Fabio, essere con lui, ma non potevo. L’acqua, dopo che si era fatta spazio, iniziò a ritirarsi. Poi lo vidi, sul marciapiede adiacente all’appartamento di un nostro caro amico: erano insieme, erano salvi.


[Peron, 30 ottobre 2018]

Un salto dai miei, per sapere se stessero bene. Tutto ok, a parte la passerella: non c'era più. Ne avevamo viste di piene, negli anni. Ricordo ancora la sensazione di vorticare sui suoi assi di legno, mentre l’acqua color fango scorreva impetuosa sotto di noi. Di solito poi il Cordevole rientrava nel suo letto, magari seguendo percorsi nuovi, diversi, a cui noi ragazzi dovevamo abituarci, giusto il tempo di rimpiazzare la nostalgia con nuovi ricordi. Quella notte però Vaia se l'era portata via. La passerella non aveva retto ai colpi del legname che la furia dell’acqua aveva trascinato con sé: si era spezzata. E con lei un pezzo del mio cuore.



[Fodom, giugno 2019]

Esattamente un anno fa, risalendo la valle del Cordevole, davanti ai nostri occhi si mostrava spietata la desolazione che solo avevamo potuto immaginare, guardando le foto, ascoltando i racconti. Era passato quasi un anno, e questo rendeva la vista dei colli nudi ancora più amara. Non ci saremmo mai potuti lasciare alle spalle una cosa del genere. Gli abitanti delle zone colpite continuavano a svegliarsi ogni mattina vedendo la distruzione dal proprio balcone e avevano dovuto accettare di convivere con uno scempio che non si rimargina più. Noi avevamo avuto paura, quella sera, ma loro, gli uomini e le donne della montagna? Al buio, nelle loro case, avevano sentito le foreste abbattersi tutt’intorno, e l’indomani si erano resi conto di essere stati graziati, pur nell’immane sciagura. È sconvolgente vedere, ancora oggi, gli alberi schiantati a pochi centimetri dalle abitazioni: l’impressione è che una mano invisibile abbia guidato i tronchi nel loro precipitare a terra, affinché le scansassero. Senza luce né telefono, né acqua per giorni, completamente isolati, con le strade interrotte, franate, gli abitanti della montagna si erano dati da fare e si erano rialzati, mentre i nostri occhi, a distanza di mesi, quasi non riuscivano a guardare lo strazio delle ferite ancora sanguinanti.


[Fodom, giugno 2020]

Oggi torniamo a Livinallongo. I sentieri che da Costa portano a Pieve sono stati completamente ripristinati, e li ripercorriamo per la prima volta. Gli alberi strappati alla terra sono ancora lì, dove il vento li aveva sbattuti, spogli e secchi, ma la natura si è prodigata per adornarli con la sua infinita grazia: le rose selvatiche pendono dalle cataste di legna e leniscono il dolore dei tronchi rotti che continuano a piangere lacrime di resina.

Accanto alla memoria di chi non c’è più, fra le radici che rimangono aggrappate a una fragile esistenza, ascoltiamo i ridolini delle nostre bambine intente a giocare nell’acqua di una pozzanghera. E sentiamo il profumo dei fiori mescolato all’odore forte del legno; percepiamo la leggerezza dell’aria, il palpitare della vita che continua, inarrestabile.

Ci si abitua a tutto, o forse è solo il tempo, che permette alla bellezza di farsi riconoscere fra i resti della tragedia, di ricamarne le cicatrici. È la montagna, che le mostra con orgoglio, fiera e tenace come il suo popolo.










Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020, altitudini.it


 

Commenti

  1. Però di là del Cordevole, verso Ornella c è un larice che cresce lentamente e che inneggia alla vita.

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    1. Vero ❤️ E crescerà con almeno 45 anni di amore a concimarlo ❤️

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  2. Rivivere quel dramma attraverso le tue parole, mi ha commosso.
    Quanti sentimenti contrastanti affiorano,
    rivivendo leggendo....
    Son passati 2 anni e la natura cerca di nascondere lo scempio facendo nascere nuovi fiori tra quei tronchi abbattuti.
    Siamo ritornati connessi, la montagna col suo carico di distrazione è lassù, lontana da noi che a valle abbiamo ripreso la vita di sempre.
    Ci voleva proprio questo racconto per farci nuovamente riflettere sul grande dono della natura che noi dobbiamo reimparare a rispettare e non stravolgerla con progetti speculativi atti solo ad accrescere il proprio interesse .
    Stupendo il disegno di Aurora

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