Fra santi e scienziati, fra poeti e peccati c'è un posto
L'aria sa di lumache e di rospi, poverini, finiti sulla strada; non portò salvezza il miracolo di Santa Teresa/ a lor pelle che giace sull'asfalto stesa. È la terra spinta fuori dai lombrichi che emana questo odore, e io spero che riprenda a piovere durante la nostra sosta al lago di Vedana.
Voglio fare due scatti sotto le nubi scure perché ho in mente una cosa, ma guarda un po', fa capolino il sole. Poco male, perché si accendono proprio i colori di questo libello: gli stessi che si sono stagliati su un pomeriggio di gennaio, gelido e marrone.
Correva, curiosa coincidenza, il giorno dell'antica ricorrenza legata al romìto vescovo di Belluno, padre dei nostri sentieri, quando noi donne di famiglia andammo a fare una passeggiata a San Gottardo, e poi lungo la cinta massiccia della Certosa sotto il Piz di Vedana. Luoghi del cuore sempre lì ad aspettarmi, intatti. Si sono conservati forti delle loro radici, che sono anche le mie, e pure quelle (orgoglioso vanto!) di Girolamo Segato, deciso a ritornar insieme a Dino Buzzati, l'amico letterato (si può dire che sia uno di casa, visto che la via nella quale abitiamo è a lui dedicata), sulle pendici delle amate vette.
Era la prima volta che vedevo il murale sulle pareti dell'acquedotto vicino al vecchio lavatoio in località Le Rosse. Sì, perché ti aggiri fra i monotòni dell'inverno, e sbam! Improvvisamente la tavolozza di un pittore esplode su quella che è una costruzione tanto inestetica quanto necessaria, e che guardo con crescente apprensione. Accanto la fontana, ripulita con cura e ravvivata dagli oggetti di un tempo, memoria della scena di vita quotidiana dipinta sullo sfondo.
Ho voluto condividere la meraviglia sui miei profili social e così Lara, che abita lì vicino, mi ha raccontato che quando Giannantonio Cecchini, l'autore del murale, stava lavorando all'opera, ha permesso alla sua bambina e ai ragazzini che passavano di là di pittare alcune ranocchie sulla parete raffigurante il lago di Vedana. Mi ha detto anche che aveva qualche copia del libro La favolosa storia della rana del lago di Vedana in pizzeria ("La Buona Tavola" del Peron), e me ne ha fatta avere una l'indomani. Al di là del piacere di ricevere un regalo così, l'ho custodito come un bene prezioso, germe, lo sapevo, di qualcosa di bello.
Sono passati dei mesi e il tempo per leggerlo non me lo sono preso più. Succede così, in questo vorticare che si perde nella frenesia dei giorni. Intuizioni, appunti, to do list che si dissolvono nel mare degli impegni quotidiani, di una vita che rincorre chissà che cosa e si affanna perché non è mai abbastanza. Un po' come la rana della favola, così presa a gonfiarsi per essere di più da non accorgersi di ciò che le accade intorno (un finimondo!), e peggio ancora, dentro.
Fatto sta che in queste settimane sto partecipando a un progetto della scuola di Libano: i bambini con le loro maestre hanno inventato una storia in rima e noi genitori abbiamo e l'onore di illustrarla. Così una sera, mentre goccioloni increduli (la prima perturbazione dopo mesi, credo) battevano sulla mansarda del plesso dove ci eravamo riuniti, ho conosciuto Eugenia, la mamma di un compagno di classe di mia figlia, nonché autrice del poemetto che giaceva ancora chiuso nella mia libreria. Diverse ore dopo mi sono trovata a leggerlo con le mie bambine nell'ora del tramonto, davanti allo Speron. Era arrivato il suo momento, la "cornice", come l'ha chiamata Eugenia, perfetta. Arriva sempre il tempo giusto per ogni cosa, e questo incontro è stata la pioggia buona di cui il mio seme aveva bisogno per germogliare.
"Mi è stata affidata una storia", ha raccontato Eugenia con estrema umiltà, "che ho trasposto in rima. Avrei dovuto solo rivederla, ma ho finito per rivoltarla e riscriverla in versi". È stato un dono che lei ha ricevuto e a sua volta ha restituito a noi, al quale anche io volevo rendere un piccolo tributo, segno di gratitudine per l'omaggio di Lara, per il lavoro appassionato di chi lo ha composto e disegnato, e non da ultimo, per le terre e le acque che mi hanno vista crescere.
Dunque siamo qui, sulle rive del nostro amato laghetto, a vedere la moltitudine di girini che un mese fa erano uova appena deposte nel limo. Ogni anno deve essere stato così, a dispetto delle nostre esistenze ad alta velocità, poco più in là, o delle notti brave che il gracidare delle rane accompagnava incurante dei nostri tormenti.
Piove da qualche giorno e sembra proprio acqua benedetta sull'arsura che da mesi perdura. Le crepe nel fango si sono rimpolpate, ma la parte settentrionale dello stagno si sta trasformando inesorabilmente in una prateria. Lì c'erano le ninfee, una volta. Le avevamo viste quella sera che eravamo andate a correre per le strade delle Masiere e al ritorno avevamo cantato a voce alta per non temere il buio, vent'anni fa, e forse più. Il microcosmo lacustre nel suo trascorrere resiste. Chissà se, per grazia, fioriranno di nuovo le ninfee.
Le campane della Certosa di Vedana rintoccano il mezzogiorno. Ho intimato alle mie bambine di stare un po' in silenzio ad ascoltare.
Un'armonia familiare, colonna sonora della mia adolescenza. Avevano taciuto per qualche lustro e poi avevano ripreso a squillare, scandendo le ore, come probabilmente era stato nei secoli. Il nostro parroco, prima che arrivassero ad abitarlo le suore, ci aveva fatto visitare il convento e fu un'esperienza indimenticabile. Finalmente potevo vedere cosa si nascondeva dietro le mura che avevo visto ogni giorno della mia vita da fuori. La chiesa, il chiostro, la biblioteca, le celle. Le finestre tornarono ad illuminarsi di sera, e riuscivo ad immaginarmi la vita là dentro. La Certosa è il paesaggio che ho sempre visto dispiegarsi in tutta la sua bellezza dal cortile di casa, una presenza stabile, delicata, solida, pacata. Le sento, le monache e le saluto ogni volta che il mio sguardo si posa sull'Ospizio, quando anche il sole scende dietro la montagna, e lo sfiora con un tocco gentile.
Tramonto dietro il caro orizzonte. Fascio di luce che sfiora per l'ultima volta la quiete certosina. anno2004 |
Una cella. Datemi la cella di un eremita per una settimana, un mese, due. E non si pensi che io voglia seguire le orme di San Salvador, il quale dimorò nei boschi del monte Peron percorrendo in ginocchio la via che da lui prende il nome. Di penitenze sono pieni tutti i dì: a me basta un angolino dove ricordarmi come si fa a stare. Forse, quando non si riesce sostenere il peso del mondo, si può rimanere a vegliarlo da lontano, ad alimentare, sufficientemente distanti dalle brutture, dalle rogne (come si dice da noi) e dai cattivi sentimenti, l'energia benigna che muta le sorti. Intervento sovrumano o fisica quantistica, si tratta della medesima forza "che move il sole e l'altre stelle".
anno 2000 |
Forse è l'amore che ha fatto piovere nella valle intera, invitandomi a leggere a voce alta questa poesia di primavera; che non è di immediata comprensione per degli ascoltatori in erba, ma come mi ha ricordato Eugenia, Gianni Rodari diceva ai bambini: "Imparate a fare cose difficili", poiché tutto è chiaro agli occhi del cuore.
Diobon. Brava Sara. Brava anche più del solito.
RispondiEliminaNon riesco a vedere le vostre identità, miei amati seguaci 🤭, ma potrebbe essere un intercalare patavino questo! Comunque grazie 🙏
EliminaEncomiabile Saretta mia!
RispondiElimina❤️
EliminaSei una continua scoperta, complimenti!
RispondiEliminaSono troppo contenta se a qualcuno piace leggere ciò che a me piace scrivere, grazie ❤️
EliminaGran bella descrizione poetica di questi posti da favola (che i residenti talvolta non sanno apprezzare), nei quali non vivo da decenni, ma che ho sempre ben presenti. Continui a scrivere e non sprechi i Suoi talenti : " la fortuna non esiste : esiste il momento in cui il talento incontra l'opportunità" . (Seneca)
RispondiEliminaGrazie, di cuore! Farò tesoro di queste parole ❤️
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