Della vita e della morte in un sorriso

"Dove siete stati oggi, mamma?"

"Siamo andati a salutare Massimo insieme a Roberta, Lorenzo, Maria e a tante altre persone che gli vogliono bene."

"Ma Massimo non c'è più!" 

"Hai ragione, Massimo non è più qui con noi, nel suo corpo ("lui non è qui", mi ha detto fermamente Denise poco fa, davanti al sepolcro), che oggi abbiamo accompagnato in cimitero, dove tornerà alla natura. Ma Massimo, come tutte le persone che muoiono, c'è ancora, in un altro modo, in un'altra vita, che non è più qui sulla terra, ma in cielo e nel nostro cuore, e nel ricordo del tempo che abbiamo trascorso con lui. È un po' difficile per noi che rimaniamo qui capirlo e questo passaggio ci rende tristi. È come quando alla fine delle vacanze al mare dovete salutare i vostri amichetti: anche se sapete che un giorno potrete rivedervi, vi mancano già mentre vi date gli ultimi abbracci. È il dolore di un addio."

Oggi abbiamo salutato il pezzo di vita condiviso con Massimo, lo abbiamo ricordato insieme in modo che lui ci sentisse, e per sentirlo anche noi risuonare nei nostri cuori. 
Proprio lui ha voluto che ci dicessimo "arrivederci" cantando questa canzone:

È l'ora dell'addio, fratelli,
è l'ora di partir,
il canto si fa triste,
è ver, partire è un po' morir.

Ma noi ci rivedremo ancor,
ci rivedremo un dì.
Arrivederci allor,
fratelli, arrivederci, sì.

Formiamo una catena
con le mani nelle man,
uniamoci l'un l'altro
prima di tornar lontan.

Ma noi ci rivedremo ancor,
ci rivedremo un dì.
Arrivederci allor,
fratelli, arrivederci, sì.

Iddio che tutto vede e sa
ci voglia benedir,
Iddio che tutto vede e sa
ci voglia un dì riunir.

Ma noi ci rivedremo ancor,
ci rivedremo un dì.
Arrivederci allor,
fratelli, arrivederci, sì. 

(Canto dell'addio) 


In genere non reggo molto bene i funerali, li subisco. Ricordo quelli ai quali assistivo come chierichetta, un po' impersonali, a volte carichi di una sofferenza straziante, che poco avevano a che vedere con l'esperienza della morte che avevo fatto io. E da adulta mi sono sempre trovata piuttosto in imbarazzo in queste occasioni. C'erano delle frasi di circostanza da dire? E se mi veniva a da sorridere, era proprio tanto brutto? Così, a meno che non fossero persone molto vicine, spesso ho preferito mandare un messaggio, o preparare una torta, piuttosto che presenziare la funzione. A volte ho solo ricordato nella mia intimità il caro defunto con benevolenza, augurandogli di fare un "buon viaggio". 
Mi sono sempre sentita un po' in dissonanza con i funerali forse perché mi sembrava che non dessero il modo di riempire i cuori svuotati dal dolore. Non riesco nemmeno a pronunciare la parola 'condoglianze', e non perché il termine in sé non sia appropriato ('condivido il tuo dolore'), ma perché l'ho sentito pronunciare tante volte in maniera formale, frettolosa, con riserbo. Perché è così che si deve dire, con la faccia, appunto, 'da funerale'. Il tempo di mettere insieme le sillabe e scappare. O almeno, questa era la mia percezione. 
Oggi ho capito che a darmi fastidio è proprio quella vergogna, quel pudore che nella vita di tutti i giorni ci frena dal dire o dal fare tante cose, e che in un momento toccante e profondo come quello della morte diventa insopportabile. Il funerale si fa specchio di una società che non ha il coraggio di darsi, di una vita che non fluisce e che da tempo non comunica più con la morte. L'ha relegata in un angolo, assieme a tutte le cose che fanno male, ficcate, stipate sotto, da qualche parte. Ma non si possono cancellare, rimangono lì, sempre più strette, sempre più scomode, come in una pentola a pressione pronta ad esplodere. Perché è questo che succede, quando non diamo loro il giusto riconoscimento, la cura necessaria a far sì che lo attraversino il dolore, e guariscano. E per evitare lo squarcio ci ritroviamo ad abbassare il fuoco, illudendoci di tenerle a bada: conviviamo con un borbottìo costante in sottofondo e ci riempiamo di anestetici, votati all'infelicità, incapaci di reagire alla vita e alle sue prove. Credo che il mio disagio ai funerali sia dovuto proprio a questa distanza dalla morte, a questa difficoltà di vivere.

Oggi avevo bisogno di esserci, un bisogno che anche Elisa mi ha confidato commossa, come se ci fossimo lette nel pensiero. Forse era il pensiero di tutti noi, radunati dentro e intorno alla chiesa. 
Non che conoscessi davvero bene Massimo, o almeno non quanto (lo scopro ora) avrei voluto. 
Siamo cugini acquisiti, e ci siamo incontrati la maggior parte delle volte in montagna nell'antica casa di famiglia e a Melei, dove le stelle brillano di più, ma chissà perché, presi dalla frenesia quotidiana o da quel pudore, appunto, che ci sta appiccicato addosso, non ci fermiamo quasi mai a parlarci veramente. Che grande spreco! 
Tuttavia, da quando Roberta ci ha annunciato che Massimo era venuto a mancare, io ho stampato in testa il suo volto sorridente. Sì, l'ho visto sempre così, tutt'al più serenamente assorto nei suoi pensieri, o con lo sguardo trasognato di chi avrebbe un sacco di cose da raccontare, ma che non si cruccia se il mondo non è pronto ad ascoltare. Massimo sorrideva sempre. 
Massimo è un sorriso.

Avevo bisogno di esserci oggi perché sapevo che ci sarebbe stato qualcosa di bello per tutti noi. Sapevo che nella sventura della malattia Massimo e la sua famiglia avevano avuto modo di prepararsi all'ultimo saluto (se mai si può essere pronti), e avevo sete delle parole di don Rinaldo, il suo amato fratello, che lo ha celebrato. Ha accarezzato ciascuno di noi con occhi sereni e ha raccontato l'essenza della vita senza perdere il suo mesto sorriso, così simile a quello di Massimo, nonostante l'innegabile dolore. 
Avevo sete di quella fede e di quella pace che fatico a trovare intorno a me ultimamente, ma di cui serbo un ricordo vivissimo. 

Era una mattina di inizio primavera, e mentre ci incamminavamo verso la scuola la nonna dalla finestra ci raccomandava, come sempre:
"Mettete bene lo zaino, su tutte e due le spalle, che sennò vi viene la schiena storta!"
"Sì, nonna, a dopo!"
Fu l'ultima volta che la vedemmo. Proprio quel mattino fu colta da un malore improvviso e morì sul colpo. Ancora oggi quando penso a un'immagine del dolore penso agli occhi di mia madre che ci aspettava alla fermata dello scuolabus. Lei non veniva mai a prenderci dopo scuola, c'era sempre il nonno. Appena l'abbiamo vista avevamo già capito che era successo qualcosa di brutto come non mai. 

C'è un tempo per il dolore, ed è un dolore davvero forte, come ha detto oggi don Rinaldo. 
Eppure il giorno del funerale, eravamo sedute sul prato, io, mia mamma e mia sorella, avvolte dal profumo delle viole mammole (le viole del pensiero!) della nonna. Ne raccogliemmo un mazzolino, da mettere nella bara, ci guardammo negli occhi e scoprimmo che tutte e tre provavamo una grande pace, una grande serenità. Sapevamo che la nonna se n'era andata come si era sempre augurata di andarsene ("spere che me gnene an colpet e de 'ndar senza gnanca acorderme"), e ci sentivamo al sicuro sotto la sua solida fede. Lei ci aveva sempre parlato della morte in tutta tranquillità, ci aveva raccontato tante storie, ci aveva preparato: senza saperlo ci aveva tessuto un mantello per il dolore, come quelli che Massimo ha regalato ai suoi amici. 
Questo è stato il mio primo incontro con la morte, il lutto più grande. 

E questo ho potuto ritrovare oggi, fuori dal torpore delle nostre indolenti esistenze contemporanee, che gli eventi globali stanno certo scuotendo, ma per affossarci ulteriormente nell'impotenza, con un pesante carico di ansia e disperazione; mentre noi avremmo bisogno della leggerezza di un sorriso pieno di fiducia (grazie, don Rinaldo, e grazie Roberta, per i vostri sorrisi). 
Siamo invischiati fra le più svariate paturnie, persi nei nostri drammi quotidiani, intrappolati fra pensieri tossici e poco amor proprio. Annaspiamo fra i non detti, ci manca il coraggio di fare quello che desideriamo, e a volte non lo sappiamo nemmeno, quello che vogliamo. E poi si ammala uno come Massimo: sempre sorridente, pieno di buona volontà, di progetti, di passioni; uno che ha fatto quello che sentiva e che non si è mai risparmiato; uno che dava l'idea di essere davvero in pace con il mondo. Perché? Non lo so, ma sicuramente ha lasciato qualcosa di prezioso dietro di sé, e oggi ce ne ha fatto dono, attraverso il suo esempio, le sue parole e le testimonianze di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. Non è forse questo lo scopo di una vita?
"Purtroppo non siamo tutti Massimo", dice Fabio. No, ma possiamo ispirarci a lui per migliorare giorno dopo giorno. 
Spero che da lassù possa aiutarci a dire qualche ti voglio bene in più, a non aver paura di lasciarci andare, a mollare quel dannato freno a mano, e a non perdere di vista le cose importanti, l'obiettivo della vita.
 
Grazie, Massimo. 


Se ciò che amo risuona nel tuo cuore è semplicemente perché siamo entrambi note della stessa armonia. 
(Massimo Ottone) 

Commenti

  1. Mi hai commossa. Grazie per questa condivisione.

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  2. Come solo tu sai fare,
    anche stavolta hai saputo toglierci dalle nostre paturnie quotidiane per soffermarci sull'essenza della vita terrena per comprendere meglio l altra vita e trovarci pronti
    Grazie Sara

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  3. Sara, ogni volta che ti incontro il mio cuore si apre per accogliere luce. Il modo in cui ci doni i tuoi pensieri, le te emozioni, il tuo Amore, è davvero tanta roba. Sono anni che mi auguro che la Vita ti porti a pubblicare i tuoi libri, saranno linfa per tanti. Grazie! 😘

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    1. Chissà quando mi darò l'occasione di scriverlo un libro ❤️ Grazie, grazie di cuore!

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