Di filosofia, di letteratura, di scrittura, di vita. Prontuario per i momenti di crisi

La crisi, il caso, un libro: La confessione come genere letterario di Marìa Zambrano. Una storia che è diventata quasi un pamphlet di filosofia applicata; una voce che si è fatta polifonia, e traspare fra le pieghe del quotidiano, in una canzone ascoltata alla radio - è così che la bellezza si insinua nelle piccole cose di tutti i giorni e invita a guardare oltre -. Il viaggio - personale e universale allo stesso tempo - che mi ha permesso di tirare le fila di un discorso lungo tutta la vita. Questo è il mio prontuario per la crisi, un premoria per  quando avrò bisogno di ritrovare la strada; un dono - spero - per chiunque leggerà. 


Mi piace questa cosa che le bambine si arrampichino sulla libreria - è bene ancorata alla parete, praticamente una spalliera - e prendano, tocchino, sfoglino, annusino, i miei libri. Oggi Irene mi ha messo in mano questo: La confessione come genere letterario di Marìa Zambrano (Ed. Bruno Mondadori, Milano 1997).


IO E LA FILOSOFIA A SCUOLA

L'ho guardato e ho sorriso, perché mi riporta a un autunno speciale: quello della stesura della mia tesi di laurea. Mi ero innamorata del tema che avevo scelto, ma prima ancora delle lezioni di ‘Teoria della letteratura’ che ad esso mi avevano portato; il docente era un omone ingombrante e un po' goffo che si chiamava Adone. Il suo nome strideva alquanto con la fisicità che lo caratterizzava - anche se foneticamente ricorda l’accrescitivo che ho usato proprio per ritrarlo -, ma si intonava divinamente con la voce limpida e calda che mi aveva rubato l'anima. Il suo corso fu una parentesi estatica, un inverno freddo e buio scandito da rossi tramonti che ogni sera accendevano le luci dei paesi e le stelle. Avevo riscoperto la mia innata attrazione per la zona crepuscolare - emblema della condizione umana, della mia condizione di essere ‘mancante’ - accettandone i limiti, ricompensata dalla sua commovente grazia. Doveva essere lui il mio relatore, a tutti i costi. E fu lui a farmi conoscere Marìa Zambrano.

Era la prima volta che leggevo di filosofia veramente, con il cuore. Non so perché al liceo non fossi riuscita ad entrare nel vivo delle materie che studiavo, se non per qualche sprazzo. Non so se ci fosse qualcosa di sbagliato nella didattica o se semplicemente io non fossi pronta ad accogliere tanto. Sta di fatto che la filosofia era un libro con la copertina verde e le pagine in bianco e nero fra le quali risaltava l'azzurrino dei titoli e degli approfondimenti; un ammasso di nomi e schemi da memorizzare. Eppure pendevo dalle labbra dei nostri professori durante le spiegazioni e riconoscevo la grandezza di ciò che ci stavano mettendo a disposizione. Ma tutto - o quasi - crollava e si sviliva nel calendario martellante di prove e interrogazioni. Non so che cosa darei per poterci tornare adesso! È l’ironia della sorte, la vita che non si fa ‘con i se e con i ma’.

L'università fu un'altra storia. Non mi ero completamente liberata delle mie gabbie mentali, ma sicuramente ero riuscita a godere delle cose che studiavo. Preparando alcuni esami arrivai a sperimentare un amore ardente, che però non continuai ad alimentare in seguito. Volevo essere come tutti, condurre un’esistenza normale, serena - cosa che non ero riuscita a fare negli anni delle superiori, durante i quali però non avevo nemmeno tratto grande gioia dai libri: ero andata avanti, in nome del ‘rigore’, e basta -. Volevo la mia indipendenza, un lavoro con degli orari che potesse frenare la mia dispersività, vivere per un po’ senza il peso di qualcosa che sempre incombe. Avevo bisogno di spensieratezza, di svago, di concretezza, ma anche - e soprattutto - di equilibrio. Ero ancora segnata dall'ansia incalzante del liceo, durante il quale non ero riuscita a vivere il quotidiano. Che avessi sbagliato completamente l'approccio alla scuola è certo, ma è altrettanto vero che nessuno si era degnato di condurci sulla ‘retta via’, nessuno si era preso la briga di guardare dentro di noi - ma anche fuori, nei nostri background, di guardarci tutti interi -, mosso da un sentimento di ‘humanitas’; di insegnarci a riconoscere, nella nostra vita e nel mondo che ci circondava, le verità profonde che andavamo incontrando in classe, e a farle nostre. Una dote di conoscenza dal valore inestimabile ci veniva offerta alla vecchia maniera, ma poi era affar nostro resistere o soccombere, e in qual modo. L’unica certezza imperante era che ‘solo i migliori’ sarebbero arrivati alla maturità, e invece che condividere con noi gli strumenti per navigare nella pesante eredità del nostro tempo, gli insegnanti ci lasciavano in balìa delle onde: la selezione naturale avrebbe provveduto a fare il suo dovere. Credo che il loro obiettivo fosse quello di difendere ad ogni costo la “precisione”, l’ “esattezza” tanto cara a Calvino che solo con grande disciplina avremmo potuto fare nostra. Dovevano difendere la scuola, ultimo baluardo contro “un’epidemia pestilenziale” che sembra “abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza”; contro l’ ”inconsistenza” che non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto”, “è nel mondo”: “la peste”, infatti, “colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine” (Italo Calvino, “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, Ed. Oscar Mondadori, 1993). Non so se siano riusciti nel loro nobile intento. Probabilmente sì. Può darsi che anche io ne stia raccogliendo tardivamente i frutti, proprio grazie a quei semi piantati anzitempo e attechiti nonostante la mancanza di cure, nonostante il clima sfavorevole. Ma siamo sicuri che non ci sia modo, a scuola, di tener conto anche della realtà, del contesto nel quale viviamo, con il quale i ragazzi devono fare i conti? Siamo sicuri che non sia possibile avvicinare le generazioni future a una cultura che non deve morire perché ci salverà, farle innamorare, anziché desistere? Incoraggiare i giovani, invece di tarpare loro le ali votandoli a una rassegnata frustrazione? Vedere e coltivare in loro il germe di una nuova era - l’era del riscatto? - anziché osservarli con sufficienza, come se fossero unicamente la manifestazione del progressivo e inesorabile degrado della società? Ho frequentato una grande scuola, forse la migliore, tuttavia ritengo che non sia possibile arrivare all’anima dei ragazzi senza guardarli negli occhi, senza sporcarsi le mani. Il compito degli adulti dovrebbe essere quello di accompagnare i giovani nel mondo, mostrarlo loro, illustrarne le possibilità, tramandare ciò che hanno imparato; insomma, mettere a disposizione la propria esperienza, con empatia e cura. L’impeccabile lezione frontale è una risorsa fondamentale - e tutt’altro che scontata -, ma sarebbe altrettanto importante sviluppare una relazione che miri a mettere in luce le inclinazioni e le potenzialità degli allievi, le doti che spesso questi da soli non riescono nemmeno a vedere. Una relazione basata sulla fiducia anziché sul timore, sarebbe un’iniezione di fiducia nel futuro. Forse con qualche accorgimento avrei potuto guadagnare tempo. Forse, perché “il più delle volte l’angelo non chiama a gran voce, si limita a dirigere la lenta e silenziosa rivelazione del carattere” (“Il codice dell’anima”, James Hillman). Ma c’è differenza tra l'avanzare alla cieca o con una mappa in tasca. 

Presi il diploma, senza sentirmi ‘migliore’. Ero solo smarrita, decisamente poco lucida e forse troppo incosciente per muovermi con disinvoltura nel futuro. Tergiversai iscrivendomi a Lettere Moderne senza un piano preciso, spinta forse - ne sto acquistando ora consapevolezza - da un respiro più ampio e allo stesso tempo profondissimo.

Ricordo i mesi del corso di ‘Teoria della letteratura’ come i più belli, i più intensi. La vita si era mescolata al pensiero che trovavo nei libri, e la voce del professore raccontava l'amore con urgenza. Vidi un fuoco, e ne ebbi paura, perché lo so che non ho mezze misure. Avevo paura di bruciare.

È incredibile come aneddoti e ammonimenti ritornino a distanza di anni, si catapultino fuori da cassetti dimenticati nei meandri del cervello. Il nostro professore di filosofia del liceo una volta ci aveva detto che quando ci si addentra in certe tematiche, bisogna avere l'accortezza, magari dopo un paio d'ore, di chiudere i libri e scendere al bar a farsi una birra. Allora non avevo capito esattamente cosa intendesse, ma mentre preparavo la tesi lo intuii. Per fortuna durante l'università lavoravo - proprio in un bar - e questo mi obbligava a tornare con i piedi per terra, a sforzarmi di continuare ad apprezzare la realtà. Perché il rischio, a seguire quell'ardore, è di perdere interesse per la realtà così com'è. E io non volevo questo. Avevo fame di vita, avevo bisogno di perdermi nelle sue viscere, di essere in comunione con il mondo. Perseguii "il desiderio [...] /di vivere la vita /di tutti, /d’essere come tutti /gli uomini di tutti /i giorni" ("Il Borgo", Umberto Saba). Imboccai la strada sicura, tangibile, e mi presi una pausa. Lunga una decina di anni.

 

CRISI

Una settimana fa mi sono fatta travolgere da una fissa ipocondriaca. Mi era già successo un paio di volte e i momenti di crisi alla fine si erano sempre risolti in importanti cambiamenti personali - che assumono sempre più le sembianze di tappe di un ritorno -. Sento che anche adesso potrebbe essere così, perché appena ho iniziato a scrivere, i sintomi della mia fatale malattia sono andati via via scomparendo.

Ma quello che succede prima, è davvero intenso.

Durante la discesa e lo stazionamento nel fondo sono convinta di morire presto, e, come se non bastasse, mi sento schiacciare dal senso di colpa: sicuramente se mi sono ammalata è colpa mia e delle cattive abitudini che non sono mai riuscita ad abbandonare. Non c'è spazio per il destino o per le fatalità: sono io la responsabile della mia distruzione. E ora sono anche la responsabile del dolore che causerò alle mie bambine, lasciandole. Nemmeno per loro mi sono impegnata ad avere più cura di me stessa?

Mi maledico e mi sento risucchiare in un vortice di tristezza. Non ho più fame, non ho più voglia di ridere. È un tarlo che mi divora da dentro, un pensiero costante che mi tiene sveglia la notte. E anche se provo a guardare la cosa in maniera più obiettiva, riuscendo a scorgere la deformità della mia caricatura tragica, ci ritorno sempre. Cerco di distrarmi, e allora pare che si distragga anche la percezione dei presunti dolori, inducendomi a credere che sia solo una paturnia mentale. Ma poi ricomincio daccapo.

Le altre volte avevo superato questa impasse parlandone con mio marito, con mia madre, addirittura pagando uno specialista solo perché mi dicesse, ancora prima di visitarmi, che potevo stare tranquilla: non avevo niente. Parole magiche che davvero avevano fatto passare tutto. Come il bacino sulla ‘bua’. E in effetti, ripensandoci, quando mi ritrovai nell'ambulatorio del gastroenterologo, mi ero già confidata con la mamma, e il fastidio per il quale lo avevo contattato nei giorni precedenti si era affievolito.

Ma stavolta non avevo nessuna voglia di coinvolgere qualcun altro nella mia turba, non prima di essermi accertata che fosse tale: è già abbastanza il peso che tutti ci portiamo addosso in questo periodo a dir poco singolare. Tuttavia, prima di annichilirmi nello sconforto, volevo scrivere qualcosa. Se davvero fossi stata malata, non avrei permesso che fosse inutile. Avrei potuto aiutare altre persone a non arrivare fino a quel punto. Avrei offerto la mia esperienza, sincera e umana, in favore della prevenzione. Non avrei avuto paura di mettere a nudo le mie debolezze, perché potevano essere quelle di chiunque. Ho iniziato a scrivere, prima di perdere i pensieri di quel buio. Perché è un attimo: ti riprendi e cambia tutto, torna tutto come prima. Magari sarei stata bene, ma non volevo dimenticare, come sempre. Stavolta li dovevo afferrare, quei pensieri, dare loro forma, dare loro un senso. È bastato cominciare a raccontare per cancellare la sensazione di indolenzimento che mi accompagnava da giorni.

E non può essere un caso che oggi Irene mi abbia portato proprio questo libricino, così piccolo e denso di contenuto. Un concentrato di verità, e bellezza, anche. Quella non deve mancare mai, perché delle cose bisogna innamorarsi.

 

PREMESSA – I “CHIARI” DI MARIA ZAMBRANO E DINTORNI

È notte fonda, dovevo rileggerlo subito. Mi ha cercata, sta parlando proprio a me e mi sta dicendo le cose che avevo bisogno di sentirmi dire. Ho sempre pensato che con tutto quello che c’è da leggere non valesse la pena rileggere dei libri, eppure sto elaborando tutt’altra opinione, di cui trovo conferma proprio in un passo delle “Lezioni di letteratura” di Vladimir Nabokov che - guarda caso - ho appena iniziato: “Infatti, strano a dirsi, non si legge un libro: un libro si può solo rileggere”. Un libro letto una seconda volta ci permette di scoprire nuovi particolari, e se riletto a distanza di tempo può raccontare cose assolutamente nuove, perché il lettore è parte attiva nella condivisione avviata dallo scrittore, ed è proprio il suo bagaglio di esperienze a fare la differenza. Il primo libro che ho riletto, e per ben due volte, è stato “Il codice dell’anima” di James Hillman (Ed. Adelphi, Milano 1997). L’ultima rilettura risale allo scorso autunno, dopo che, durante un pomeriggio insofferente, mi ero accasciata sulla poltrona in soggiorno raccolta in un lungo sospiro, e, fra i pianti e i litigi ininterrotti delle bambine, fiaccata da un senso di impotenza e inadeguatezza, avevo posato gli occhi sul volume. Fu ossigeno, sollievo e cura nelle settimane seguenti. Avevo ritrovato un amico, una guida. “I libri possono essere dei mentori e addirittura costituire un momento di iniziazione” (Hillman, “Il codice dell’anima”).

Dovrebbe esserci sempre una libreria in casa: una libreria con dei libri veri, che oltre al buon profumo della carta stampata hanno forma, colori; e che devono essere in bella vista per avere la possibilità di farsi ‘voce’: qualcuno al momento giusto potrebbe essere in ascolto.

È così che anche La confessione come genere letterario mi ha intercettata oggi.

Tredici anni fa, quando lo avevo letto per la prima volta, ne avevo colto solo una minima parte. Mi ero concentrata sulla “sofferenza” degli uomini come esseri nati a metà e per metà inseriti in una realtà presagita (p. 52) che si rivela in alcuni momenti chiamati dalla Zambrano “chiari del bosco”, ovvero “istanti in cui il tremolìo e l’iridescenza della luce filtrano tra i rami degli alberi” mentre avanziamo nel bosco, e che invitano ad “andare a vedere, a spingersi fino al limite del luogo - un altro regno - attraverso cui la divinità si dileguò o che l’annunciava”La nostra vita infatti, secondo la filosofa andalusa, è un “girare intorno”, una “spirale che avanza e retrocede per poi riformarsi in un attimo per intero”, un “proseguire di chiaro in chiaro senza che nessuno di essi perda né sconfessi nulla”, perché i chiari “sono la ripercussione di un istante che si perpetua con discontinuità salvandosi sul punto di perdersi”, il “centro - centro dell’essere - che è stato risvegliato”. Tuttavia la loro luce, come si accende inspiegabilmente nell’oscurità, in essa ricade. E allora? Conoscevo la gioia profonda e la meraviglia che si provano nei momenti in cui ci sembra di venire illuminati, quando tutto appare chiaro - e perché non ci ero arrivata prima? Perché avevo dimenticato? Come può essere che questa sensazione di benessere sia ogni volta più forte? - ma provavo un senso di frustrazione - pur intuendo l’esistenza di una radiosa meta finale e compiacendomi anche di questo continuo anelare, del desiderio che non muore mai e ci fa sentire vivi - al pensiero che “vivere umanamente” fosse proprio questo, “un aspirare e un desiderare appagati, nell’oblìo di se stessi, da istanti di pienezza che in seguito li ravvivano, che li riaccendono”. Ero frustrata all’idea di una “pienezza che non giunge a darsi” (Marìa Zambrano, “Chiari del bosco”, Ed. Bruno Mondadori, Milano 2004), perché temevo che non sarei riuscita a conservare il segno del suo passaggio, ricadendo ogni volta nell’oblìo. Non volevo dimenticare, patire ancora, ma sembrava un destino inesorabile. La realtà stava lì, ma dimentichi di essa rimanevamo ugualmente smarriti e confusi. La realtà infatti ci circonda, ma non è sufficiente che ci sia: forse non c’è finché non ci siamo predisposti a riceverla (p. 53). E quando la scopriamo abbiamo la certezza di rivelarci a noi stessi (p. 54). Prima però c'è l'oblìo. Nei momenti più cupi e disperati, come nei periodi di calma apparente, dove siamo stanchi di cercare - “la coscienza si stanca, declina” - ( Zambrano,“Chiari del bosco”) e ci lasciamo trascinare dalla vita con indolenza, non abbiamo un progetto da visualizzare, non troviamo il senso della nostra esistenza e ci sentiamo abbandonati, mentre aspettiamo un segno che non verrà ad indicarci la strada, mentre aspettiamo Godot - sempre che ci sia dato di aspettarlo (“Il codice dell’anima”, James Hillman) -. 

Ma perché non posso conoscere tutto in una volta, me stesso e dunque la realtà, una volta per tutte? Perché mai è necessario angustiarsi nell’oscurità, nel dolore? Bisogna accettarlo, ci dice la filosofa, accettare la realtà senza condizioni come ha fatto Sant’Agostino, che nelle sue “Confessioni“ non comincia con un atto di ragione, ma di accettazione ( p. 53). E da lì, senza la paura di bruciare - che è un po’ il timore di fronte alla rivelazione e a ciò che ci obbligherà ad affrontare, il “timore iniziale di essere iniziato alla verità, guidato da essa”, “il timore dell’estasi che fa fuggire dal chiaro del bosco” (Zambrano, “Chiari del bosco”); e ancora la “paura di lasciare entrare il daimon nella nostra vita, paura che ci abbia chiamato, che ci stia ancora chiamando, e per questo ci rifugiano in cucina (Hillman, “Il codice dell’anima”) - o di smarrirsi – e rimanere vittime dell’inerzia - forse è possibile compiere il primo passo, un piccolo passo, che non aprirà le porte a tutte le opportunità, a tutto il potenziale della vita, non esaurirà la sete e non condurrà subito alla meta - anche perché per arrivare subito alla meta sarebbe necessaria una violenza folgorante che paradossalmente la precluderebbe: è dall’oscurità e dal vuoto che si irradiano la luce e la bellezza, nella misura in cui possiamo godere di esse -, ma permetterà di proseguire lungo il cammino a spirale, senza perdere le conquiste di ogni chiaro attraversato.

 

"LA CONFESSIONE COME GENERE LETTERARIO" 

Mi ero fermata agli ostacoli, dicevo, e non avevo trovato, fra queste pagine, una soluzione. Eppure stava lì, scritta a chiare lettere. Allora non ero riuscita a trovarla, e anche se qualcuno me l’avesse spiegata non sarebbe arrivata al mio cuore: pare infatti che la mente si appaghi solo di ciò che ha trovato da sé (p. 77).  C’è anche da dire che prima di diventare mamma il senso di colpa non era contemplato fra i miei pensieri, se non in minima parte. Ero riuscita a metterlo all’angolo: non avevo nulla di cui rimproverarmi, e meritavo una vita felice. Insomma, a vent’anni ero giovane e non avevo grandi discussioni con la mia coscienza. I momenti di insoddisfazione e sfiducia erano semmai dovuti alle mancanze del mondo, ed era un’ingiustizia cosmica, perpetrata anche nei miei confronti, la causa della mia disillusione. Con la maternità sono arrivati nuovi stimoli, ma anche nuovi carichi e nuove responsabilità, e scontrandomi con le prove che ogni genitore si trova ad affrontare, ha fatto irruenza, prepotente, il senso di colpa, che mi pervade soprattutto quando non riesco a reagire come vorrei alle avversità, quando ho paura di non essere abbastanza per le mie bambine - “è di tutti l’angustia di non avere fatto abbastanza”, sembra volermi rincuorare Hillman ne “Il codice dell’anima”, ma nelle madri è connaturata, e spietata -. Ad ogni modo è proprio grazie a questo ‘macigno’ sul cuore che qualche giorno fa sono giunta spontaneamente alla soluzione di cui parla Marìa Zambarano, e ne prendo consapevolezza oggi rileggendo La confessione come genere letterario. Le righe buttate giù durante la crisi, infatti, altro non erano che una confessione. Stavo confessando le mie falle, reali o presunte. Non farò una valutazione sull’origine del mio invadente senso di colpa né sulla natura dei miei ‘down’. È ovvio che il punto di partenza sia un minimo di autoanalisi, ma per fortuna le cause del nostro scoramento non inficiano la validità del metodo. Voglio dunque mettere nero su bianco - appuntarmelo, per non dimenticarlo - qual è il meccanismo ‘guaritore’ che si innesca con la confessione, voglio condividere la scoperta - riscoperta - di questo prezioso saggio perché possa trovare risonanza in qualcun altro. Infatti, se la realtà si cerca nella solitudinenon la si trova senza contropartita, nessuno la trova solo per sé; trovarla vuol dire già comunicarla (p. 63). Il linguaggio, il pianto stesso, nasce di fronte a un possibile ascoltatore che lo raccolga (p. 48), ma la confessione è efficace anche in un altro senso: raggiunge qualcosa che vuole trasmettere (p. 44). Il mostrarsi apertamente nella confessione è ciò che attua la conversione, che fa sì che noi ci sentiamo spogliati da quello che eravamo, dal vestito usato e logoro (p. 56); è quando si fa conto sulla fede altrui, sul credito che ci fanno, che si rompe l’ermetismo, ed è a partire da questa comprensione che è possibile la comunione con gli altri, dunque l’azione (p. 64). Perché quando leggiamo una Confessione autentica, sentiamo che quel qualcosa si ripete in noi (p. 44), e siamo portati a fare la medesima azione che ha fatto chi si confessa: esporci come lui alla luce per esser visti, per sentirci accolti da uno sguardo che ci unifica (pp. 56 - 57) . Ho trovato il medesimo concetto ne “Il codice dell’anima” di Hillman: “Vedere è credere, credere in ciò che si vede, e questo fatto conferisce immediatamente il dono della ‘fede’ alla persona o alla cosa che riceve lo sguardo. Tale vista è una benedizione: ‘trasforma’. Perciò noi cerchiamo amanti e mentori e amici”, per “ ‘essere visti’, ed essere benedetti”. Immagino che possa risultare faticoso muoversi fra citazioni continue e tanto pregne di significato, ma non voglio rovinare l’altissimo livello di espressione raggiunto dal linguaggio in esse. Senza contare che sono necessarie ad avvalorare il mio discorso e mi aiutano a rendere la meraviglia di ritrovare gli echi di questo ‘chiaro’ in ogni dove, lo stupore di constatare che tutto mi parla, da sempre, della stessa importantissima cosa.

La crisi personale che ho vissuto e che ho raccontato sopra è solo un esempio fra gli innumerevoli momenti di sconforto, i più svariati, che tutti possiamo trovarci ad attraversare nella vita, segnati dal rammarico che qualcosa dipenda da noi - tale disperazione, prima di essere espressa come confessione è soltanto lamento, che non arriva a diventare confessione se il soggetto non pensa che qualcosa dipenda da lui ( pp. 76-47) -. La buona notizia è che c’è un modo per far sì che la ruota ricominci a girare, per riuscire a perdonarci e a provare il sollievo di una redenzione ‘creativa’ - crea un nuovo modo di essere, l’uomo nuovo appena nato (p. 63) che apre l’animo alla fiducia (p. 77) -. Non è cosa di poco conto, perché solo credendo fermamente - avendo fede - nella possibilità di essere migliori - che poi significa imparare a conoscerci, riconoscerci, e avere la forza di vivere secondo il nostro proprio essere senza perderci o annientarci nell’oscurità e senza biasimarci per il tempo perso, che non esiste affatto, se non per la nostra folle cultura che non ammette vuoto e lentezza - possiamo sperare in un mondo migliore.

Confidarsi con un amico - con il compagno, con la mamma -, fare outing, vuotare il sacco dall'analista, scrivere, a noi la scelta: l’importante è parlarne. Non c’è niente che non si possa risolvere, che non possa essere visto sotto una nuova luce, che non possa aprire nuovi orizzonti; tutto può trovare un senso.

La confessione è dunque un metodo attraverso cui la vita si libera dai suoi paradossi e giunge a coincidere con sé stessa, il punto di partenza da cui la vita si rivela e si mostra, mettendosi in movimento (p. 51), l'inizio di un cammino di salvezza (p. 55).  Si confessa chi è stanco di esser uomo, di se stesso, chi non accetta quello che si trova ad essere, chi è disperato, solo (pp. 48-49) - e si tratta di una solitudine interiore, intrinseca all’essere umano -. Nella disperazione di sé medesimo l'uomo fugge da sé nella speranza di ritrovarsi, esce da sé per aprire i propri limiti, spostarli e trovare la sua compiuta unità più in là di essi (p. 50). 

Marìa Zambrano però ci dice qualcosa di più riguardo alla solitudine dell’uomo, alla sua disperazione, a un malessere sempre più diffuso, che si insinua subdolo nel nostro quotidiano: accompagnandoci lungo secoli di filosofia scova la radice della nostra angoscia in Cartesio. La ricordavo, la spaccatura cartesiana, che il professore del liceo non smetteva mai di sottolineare, ma allora - di nuovo - non avevo capito la portata della cosa. Siamo figli della storia, del pensiero delle generazioni che ci hanno preceduto, e non possiamo non tenerne conto, se vogliamo cambiare rotta. Non possiamo non tenerne conto se conosciamo l’ansia dell’uomo moderno e vogliamo liberarcene, per tornare a vivere.

C’è qualcosa che va oltre le nostre pecche come singoli individui, oltre i nostri vissuti personali, ed è la cultura nella quale ci siamo trovati a nascere, che trae origine proprio dalla rottura, operata da Cartesio, fra la ragione/verità e la vita, fra la mente e il corpo, fra l’uomo stesso e il mondo che lo circonda; una rottura che ha infranto l’armonia e la complementarietà fra mondo sensibile e mondo intelligibile, privandoci, a lungo andare, dello spirito. Ponendo come assioma indubitabile su cui basare tutta la conoscenza il fatto che il soggetto esiste in quanto essere pensante, Cartesio ha aperto la strada al soggettivismo, all’idealismo moderno, al relativismo; all’uomo illuminato che si è votato totalmente alla scienza e alla tecnica dimenticando l’anima, e, decretata la morte di Dio, si è buttato nella corsa sfrenata verso l’immortalità in nome del progresso, salvo poi essere succube della follia capitalistica. Da qui la perdita di ogni legame fra l’uomo e il mondo, gli squilibri che sono sotto gli occhi di tutti, ma che possiamo ignorare voltandoci dall’altra parte, assopiti nel consumismo, confusi dall’impossibilità di accedere a una qualsivoglia verità. “L’uomo che ha perduto il suo angelo finisce per assomigliare a un diavolo; e allora l’assenza, la violenza o la paralisi sono tutti sintomi dell’anima alla ricerca della perduta vocazione verso qualcosa di altro e di oltre. L’oscillare del padre tra la rabbia e l’apatia, al pari delle allergie e dei disturbi comportamentali dei suoi figli, e delle depressioni e dei queruli risentimenti di sua moglie, sono parte di un modello al quale partecipano tutti insieme, un sistema economico banditesco che promuove la loro comune insensatezza sostituendo l’ ‘oltre’ con il ‘di più’ ". Questa la lucida analisi di Hillman.

Per gli antichi greci c'era un ordine predefinito e tutto, anche la tragedia, si risolveva in esso. Partendo dalla verità inaccessibile dei filosofi antichi anche l’uomo analfabeta poteva giungere a una verità che ordinava la sua vita, anche il servo della gleba medievale poteva giungere alla nozione che dava un senso al suo passaggio sulla terra (p. 36) . Ma dov’è la verità che la ragione moderna ha offerto all’uomo, all’uomo e basta? Man mano che l’ “umanesimo” guadagnava terreno, la vita dell’uomo semplice che non aveva tempo né mezzi per mettersi a cercare la verità per conto proprio e con le proprie forze, rimaneva sempre più abbandonata e svilita (p. 37).

Nonostante la filosofia, forma di conoscenza meramente intellettuale, fosse partita dalla rinuncia al lamento (p. 47), fino a Cartesio c'era una qualche credenza di per sé trasparente, [...] una fede (p. 76) che andava oltre la ragione, ed erano contemplate altre modalità di contatto, come ad esempio la relazione con i morti e tra questi con i propri antenati (p. 104); l'intimità con tutte le cose, le cose di tutti i giorni, che non basta che siano di tutti i giorni perché con esse ci sia intimità (p. 105). Una volta, prima di essere spazzato via dall'io cartesiano, c'era qualcosa chiamato anima, che noi ora immaginiamo come spazio interiore, tesoro in cui si custodiscono le possibilità nascoste e imprevedibili di ognuno, lo spazio adeguato ad accogliere cose, personaggi, speranze e nostalgie, abbozzi e progetti, impronte e sentimenti (pp. 102-103) - tema fondamentale ne “Il codice dell’anima” di Hillman, che ispirato la mia storia "La soffitta della nonna".

Secondo il ‘cogito ergo sum’ cartesiano, invece, la realtà tutta deve andare a trovare la sua giustificazione ultima in un'immediatezza della coscienza. Nasce la solitudine umana che sottometterà il mondo e le sue ricchezze alla sua misura umana (pp. 78-79). L'unità di vita e conoscenza s'è rotta (p. 81). La ragione correrà libera dalla vita, basterà a se stessa. 

Per l'Idealismo il conoscere sarà interamente ed esclusivamente esistere (p. 82). Tuttavia, ciò che dell'uomo non era conoscenza, rimaneva, nonostante tutto, vivo e più oscuro che mai, poiché non aveva più accesso alla conoscenza né quasi diritto ad esistere: però rimaneva vivo. L'originalità del cuore, l'originalità dell'individuo nelle sue povere e oscure viscere, la vita nella sua dispersione e oscurità, si renderà ben presto visibile nella sua supremazia e nel suo bisogno di ribellarsi, di reclamare i propri diritti (p. 82)

Sarà il cuore dei romantici, che vuole vivere per conto suo (p. 85), l'originalità del cuore che produce una vita, la vita letteraria, il vivere in situazioni immaginarie, come in un "a priori" del cuore o dell'amore (p. 86), la vita romanzata come paradiso perduto, diritto all'evasione suprema, all'oblìo totale per arrivare all’estasi (p. 93). 

Ma è il Decadentismo che renderà ancora più manifesta la solitudine dell' io privo di spazio, e i ‘poeti maledetti’ saranno vittime allucinate ebbre della possibilità, rancorose per la loro esistenza a metà, consumate negli sforzi di essere dentro un individuo (p. 103). Mancanze di spazio, di ampiezza in cui muoversi e riposare, è la vera condizione di vita che ci si presenta per questo tipo di uomo oppresso dalla dote terribile del suo io originale e originario. Si spingono fino al suicidio a causa del loro desiderio di esistere (p. 101). 

Come non pensare alla maledizione del "Club 27", incarnazione palese (e celebre) dello stesso disagio ai nostri tempi? “La colpa è dell’angelo, della difficoltà del del non umano che cerca di discendere nell’umano. Le storie di droga che interrompono una carriera, i tentati suicidi e le morti precoci potrebbero dipendere dall’incommensurabilità esistente tra vocazione e vita”, ci dice Hillman ne “Il codice dell’anima”.

Il surrealismo sarà l'ultima protesta contro l'io cartesiano e l'unità originaria radicale (p. 95), ma si perderà in questo essere "anti" e nella convinzione più diffusa nel momento in cui nacque, per cui la realtà umana si identificava con la psiche. Ne risulterà una letteratura spezzata, deforme, frustrata nelle proprie possibilità a causa della superficialità personale, schiava degli atti psichici che riflette, senza riscattare l'unità persa sotto questi (p. 97).

Il dramma della Cultura Moderna è stato dunque la mancanza iniziale di contatto tra la verità della ragione e la vita (p. 34), “la perdita di forma” che Calvino constata “nella vita”, e a cui cerca di “opporre l’unica difesa” che riesce a concepire: “un’idea della letteratura” (“Lezioni americane – Esattezza”).

Secondo Marìa Zambrano è la confessione il genere letterario "di crisi" che ai giorni nostri ha osato riempire il vuoto, l'abisso terribile dell'inimicizia tra la ragione e la vita (p. 39). E lo dichiara con passaggi di estrema bellezza, caratteristica peculiare della sua poetica. Sì, perché la poesia è la forma di conoscenza  in cui l’unità sognata dal filosofo si avvera (p. 123): se l’idea quando giunge all’oggettività è un disegnarsi della cosa e dell’ essere nella mente, la poesia invece è sempre stata cosa “della carne”, delle viscere. Ma in relazione e contatto con qualcosa che è fuori di esse, così come fuori dalla mente sta ciò che si conosce (p. 120). La poesia nasce, come la conoscenza, dall’ammirazione per le cose – per le “apparenze”, ma non si rassegna ad esse, perché ciò che la filosofia chiama sdegnosamente “apparenze” non esiste, come non esiste la “pura” materia né la “carne”. La poesia permette di approfondire senza rinunciare a nulla (p. 123), di far riferimento al mondo delle idee senza rinunciare alla vita, che è anzitutto dispersione e confusione, e si sente umiliata di fronte alla verità pura. Ogni verità pura, razionale e generale, deve sedurre la vita; deve farla innamorare. La verità pura umilia la vita quando non ha saputo innamorarla (p. 34).  

E per innamorare la vita ci vuole bellezza, ci vuole immaginazione.

“I lettori nelle biografie cercano suggerimenti per vivere”, sostiene Hillman, ma “soltanto se la narrazione stessa trasmette il senso della bellezza, una biografia può rendere giustizia alla vita che narra”. “Occorre avere occhio per le immagini” - guardare con “l’occhio del cuore”- e “avere il linguaggio per dire ciò che vediamo”.

La bellezza è una “manifestazione sensibile dell’unità” a cui aneliamo nella “contemplazione” (“Chiari del bosco”, Zambrano) e l’arte vera è attività contemplativa. Tutto ciò che con essa ha a che fare - concetti o personaggi, forme o aspirazioni costituisce una molteplicità possibile per l’unità su cui riposa (p. 99),  il calviniano “golfo della molteplicità potenziale - un mondo o golfo mai saturabile, di forme e d’immagini - , repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato e forse sarà ma che avrebbe potuto essere” (Lezioni americane – Visibilità).

Ma la bellezza è anche “presupposto dell’intelligenza”: ne “I chiari del bosco” la Zambrano ci parla di “modi di conoscenza che solo sono possibili in un certo mezzo di visibilità” e ci dice che “l’essere umano dovrebbe recuperare altri mezzi di visibilità che la sua mente e i suoi stessi sensi reclamano per averli già posseduti una volta poeticamente, o liturgicamente, o metafisicamente”.  E non è la “visibilità”, uno dei valori che Calvino vuole salvare per il prossimo millennio? Il potere di “pensare per immagini”?

 

CONCLUSIONE

Sono partita da una ghiandola ingrossata e ho contemplato il mio sintomo: “il sintomo” infatti “vuole essere contemplato, non solo analizzato”, dobbiamo predisporci a cogliere in esso una “intenzionalità nascosta, sicché lo possiamo considerare, meno ansiosamente, non più come qualcosa che non va, bensì più semplicemente, come un fenomeno - e fenomeno in origine significava qualcosa che appare, splende si accende, si illumina, si offre alla vista -. Non dimentichiamo l’osservazione di Jung: ‘Gli Dei sono diventati malattie’. Per vedere l’angelo nella malattia occorre avere occhio per l’invisibile“ (“Il codice dell’anima”, Hillman). Ho voluto guardarlo da una prospettiva diversa per dargli un senso, e mi sono ritrovata a ragionare sul bisogno di senso mio e della società in cui vivo. Ho scoperto una via d’uscita e mi sono persa, entusiasmata, appassionata, in mezzo ai collegamenti che continuavano a crearsi nella mia testa fra letture, canzoni, ricordi, eventi fortuiti. Questo scritto, che mi ha donato diletto e soddisfazione, e che voglio tenere come promemoria, è nato da una casualità: le piccole manine della mia bimba che me lo hanno porto. È nato dalla bellezza di un gesto, e mi riconduce proprio all’intento programmatico delle mie “Piccole storie viola". La verità, il senso della vita, non si devono cercare chissà dove: soprattutto nei momenti più difficili è nelle piccole, piccolissime cose che possiamo intravedere uno spiraglio di luce, un appiglio per non lasciarci sprofondare giù. È nei dettagli apparentemente di poco conto che si nasconde la bellezza, l’eco di qualcosa che va oltre la nostra vita quale la intendiamo normalmente; la certezza confortante che un senso c’è, fosse anche solo il godimento nell’ammirazione; la consapevolezza che possiamo essere più felici, più pieni, se impariamo a guardare le cose che ci circondano con gli occhi dell'anima. 

“Una teoria sulla vita deve fondarsi sulla bellezza, se vuole spiegare la bellezza che la vita cerca” ( Hillman, “Il codice dell’anima”). 


APPENDICE POP

È mattina, facciamo colazione, e mentre stendo la marmellata sulla “vetta di bicottata”, mi rendo conto che la cadenza del mio cuore è cambiata: pulsa qualcosa di leggero, brioso, appagante. Sono arrivata alla fine di questa lunga conversazione, ma mi trovo a temporeggiare: voglio assaporare ancora un po’ il gusto del 'chiaro' presente. 

La nostra radio preferita passa “Gli angeli” di Vasco. Un capolavoro. Un dardo conficcato nel petto, e un ‘brivido’.


“Quello che si prova

Non si può spiegare qui

Hai una sorpresa

Che neanche te lo immagini


Dietro non si torna

Non si può tornare giù

Quando ormai si vola

Non si può cadere più


Vedi tetti e case

E grandi le periferie

E vedi quante cose

Sono solo fesserie


E da qui, e da qui

Qui non arrivano gli angeli

Con le lucciole e le cicale

E da qui, e da qui

Non le vedi più quelle estati lì

Quelle estati lì


Qui è logico

Cambiare mille volte idea

Ed è facile

Sentirsi da buttare via


Qui non hai la scusa

Che ti può tenere su

Qui la notte è buia

E ci sei soltanto tu


Vivi in bilico

E fumi le tue Lucky Strike

E ti rendi conto

Di quanto le maledirai


E da qui, e da qui

Qui non arrivano gli ordini

A insegnarti la strada buona

E da qui, e da qui

Qui non arrivano gli angeli”


Nella notte buia siamo soli e abbandonati (“qui non arrivano gli angeli”), e non verrà nessuno a guidarci, non c’è un ordine che ci possa indicare la “strada buona”. Siamo confusi e smarriti perché non esiste alcuna verità - o ne esistono mille - (“qui è facile cambiare mille volte idea”). Ci sentiamo impotenti, insensati, “da buttare via”. E ci buttiamo via davvero, fumando le nostre “Lucky Strike”, già consapevoli di quanto ci sentiremo in colpa per questo (“e ti rendi conto di quanto le maledirai”). La disperazione e la desolazione sono estreme e “qui” non si risolvono. Eppure, fra questi versi, si intravede uno spiraglio di luce, un’evidenza: è il sole di “quelle estati lì”. Sono le “lucciole e le cicale”, esseri così piccoli e trascurabili - l’evidenza è solitamente povera, terribilmente povera in termini di contenuto intellettuale. Eppure opera nella vita una trasformazione senza pari che altri pensieri più ricchi e complessi non sono stati in grado attuare. E la trasformazione che attua sulla conoscenza stessa apre l’animo alla fiducia (p. 77) - , che però riescono ad evocare il ricordo di un tempo felice, la potenza di un’immagine di bellezza. È la bellezza della vita che ci tende la mano per farci volare oltre le “fesserie”.

È proprio qui, dove una canzone ascoltata alla radio una mattina si incontra con la filosofia, che raggiungo davvero quella comunione con il mondo che cercavo. In una confessione, in una storia, nella parola che può colmare il vuoto, dare un senso, farsi guida, farsi vita.


P. S. : ho smesso di fumare

 

Commenti

  1. Alla fine siamo tutti Vasco;
    bisogna cadere per poi riprendere a volare.

    Io non ho letto libri puramente filosofici, ma ho avuto una mamma, (anche se anziana), e una sorella (quasi - mamma) che molte delle cose che hai citato, me l'hanno dimostrato con la loro quotidianità.
    Nel saper cogliere il chiaro anche dalle giornate buie .
    Ancor oggi parlo con loro ed esse mi aiutano a fermarmi un po',
    guardare da un'altra angolatura,
    prendere fiato
    e ripartire con spirito positivo.
    Io sempre non riesco nell'intento, forse perché in quel momento prevale il pensiero di Cartesio......

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