Il terrazzo di Via Brandolese

Era novembre, faceva quasi buio, e io, rincasando, camminavo per la città. Finita lezione cercavo sempre di fare la strada da sola. I miei amici di solito si accompagnavano a gruppetti: erano abituati a fare tutto insieme. Io invece avevo bisogno dei miei spazi, di un po' di solitudine, sono sempre stata così. Amavo fermarmi dove volevo, quando volevo, per quanto tempo volevo. Mi piaceva allungare la strada prendendo le vie più piccole, esplorare gli angoli della città, guardare, pensare. Un rituale di sabana memoria.

Mancava più di un mese a Natale e le vetrine dei negozi erano già piene di lucine, un tripudio di decorazioni. Le persone si muovevano frenetiche: sembravano formiche impazzite in un formicaio; solo che mentre i piccoli insetti laboriosi hanno un loro preciso sistema per espletare delle operazioni di vitale importanza, tutte quelle persone sembravano girare vorticosamente senza un senso. Iniziai a provare disagio. La sensazione era che ci fosse troppo, di tutto. Arrivai alla mia graziella, girai la chiave nel lucchetto e mi buttai anch'io lungo la strada principale. C'era il traffico delle ore di punta, con il suo rumore di clacson nervosi e motori accesi. Le luci natalizie erano diventate una lunga fila di fari rossi fermi ai semafori. Di solito mi piaceva la confusione della città, così diversa dalla calma del paese, ma quella sera mi sentivo quasi in affanno. Mentre avanzavo mi chiedevo chi ci fosse alla guida di tutte quelle auto, e chi invece magari fosse a casa ad aspettare. Una mamma era rimasta in ufficio fino a tardi mentre il suo bambino, dopo una giornata di scuola, doposcuola e babysitter desiderava più di ogni altra cosa riabbracciarla, e se ne stava con il naso incollato alla finestra, sperando di vederla entrare in cortile. Anche lei probabilmente continuava a guardare l'orologio sul cruscotto con lo stesso pensiero.

Nei giorni seguenti sarebbe partita una corsa sfrenata ai regali di Natale, e l'idea mi dava alla nausea. Che senso aveva questa cosa dei regali a Natale, se non si poteva essere davvero felici? Se la maggiorparte delle persone non poteva donare ai propri cari la cosa più preziosa, cioè il tempo? C'era qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere, nella nostra società. Che cosa avrei fatto io da grande? Come sarebbe stata la mia vita? Che cosa potevamo fare per uscire da questa impasse?

In preda alle mie riflessioni mi buttai nella rotonda, la superai e sentii uno stridore di freni, un colpo sordo, e un rumore di vetri rotti. Salii sul marciapiede, mi fermai, mi voltai, e vidi una signora anziana stesa a terra, proprio sulla rotonda "della morte" (la chiamavamo così), che avevo appena oltrepassato. L'automobilista che l'aveva investita aveva aperto la portiera della sua vettura e si era precipitato su di lei. Le mani sulla testa, negli occhi il panico e la disperazione: "Che cazzo ho fatto, che cazzo ho fatto!? Aiuto, aiuto!". Dalla testolina canuta poggiata a terra un rivolo di sangue aveva iniziato a macchiare l'asfalto. Avrei voluto scappare, dimenticare quella scena dolorosa, ma ero paralizzata. E dovevo accertarmi che non avessero bisogno di me, che qualcuno, se non fossi stata proprio io, chiamasse i soccorsi. Per fortuna prontamente sopraggiunsero diverse persone, che andarono a formare un cordone intorno al luogo dell'incidente. Restava fuori solo la busta di carta che la povera signora portava con sé, rovescia a terra, svuotata delle mele che erano rotolate fuori. Ho immaginato la sua cucina, un cagnolino che la aspettava sulla porta e iniziava a mugugnare, nella luce sempre più fioca dell'imbrunire. Sul davanzale una piantina di basilico che rinfrescava l'odore tipico delle case dei vecchi; sopra il giornale locale, vicino alla poltrona, gli occhiali, che non sarebbero serviti più. La signora era uscita a comperare delle mele per preparare una torta, perché a cena sarebbe arrivato suo figlio: un'occasione speciale, insomma. Lo vedeva poche volte l'anno ormai, perché si era trasferito all'estero dove aveva impiantato la sua attività, ma quel giorno si trovava a Padova per un meeting di lavoro, e avrebbe voluto approfittarne per far visita alla vecchia madre. Già sentiva il profumo della torta di mele della mamma: il profumo più buono del mondo. E invece il destino era stato crudele, e senza nemmeno il tempo di un saluto, se l'era portata via. Perché? Quella piccola vecchina, che male poteva mai aver fatto? E quel povero automobilista, quale dolore straziante doveva provare, come piombato all'improvviso in un terribile incubo? Pensai che sarebbe bastato tornare indietro di un solo minuto per cambiare il corso degli eventi. Perché non si poteva fare? Io non ce la facevo a sostenere tutta quella sofferenza, che pure era solo una minima parte del dolore del mondo, del male di vivere. Presi la mia bicicletta a braccio e proseguiti a piedi. Svoltai a sinistra, nella nostra via, aprii il cancello e me lo chiusi alle spalle. Stavo ancora tremando. Vidi che la luce della cucina era accesa. Non volevo entrare subito in casa, non volevo dover per forza parlare con qualcuno. Salii le scalette a chiocciola che portavano sull'enorme terrazzo sopra il tetto del palazzo. La ex inquilina dell'appartamento ce lo aveva mostrato solo un paio di mesi prima, sotto il sole cocente di una calda giornata di settembre. Non ci eravamo mai più salite.

Arrivai in cima, e quello che vidi fu di una bellezza struggente. In sottofondo rimaneva il rumore, più lontano, delle auto, e il tramonto sulla città era una delle cose più belle che avessi mai visto. Molte volte a casa, nella mia conca montana, mi ero persa nei colori del cielo invernale alla fine del giorno, seguendo con lo sguardo il profilo noto del mio orizzonte. In città non ero ancora mai riuscita a vedere il sole tramontare. Mi accesi una sigaretta, e pensai alla nostra infinita pochezza. Avevo ancora tutta la vita davanti, e non avrei sprecato un solo giorno. Lo dovevo a chi non aveva la mia fortuna, lo dovevo a me stessa.

Partì la sirena dell'ambulanza, fortissima. Speravo con tutto il cuore che quella signora ce l'avesse fatta. In città si sentivano sirene di continuo, tanto più che abitavamo poco distanti dall'ospedale. Da noi in montagna invece, quando sentiamo una sirena, ci mettiamo subito in allarme, chiedendoci cosa possa essere successo. È una stretta al cuore, una preoccupazione familiare, nei nostri paesini di poche anime, dove tutti si conoscono. Per questo non mi sono mai abituata a quel suono, un richiamo improvviso alla nostra precarietà, che arriva a sconquassare l'ordinario presente. Quella sirena però era il suono di una vita che aveva ancora qualcosa da dare, forse il calore e la vicinanza di un figlio da ricevere.

E io oggi sono qui, davanti all'ennesimo tramonto sulla vallata bellunese, a chiedermi se negli anni ho mantenuto fede alla mia promessa.



Commenti

Post più popolari