Io sì, che avrò cura di te

PREMESSA

Questa storia nasce grazie a una chiacchierata quotidiana e al tempismo perfetto delle cose che accadono:


- È terribile, ho cominciato a sognare la gente con le mascherine! Succede anche a te?
- No, non mi pare... Da quant'è che non sogno? Tanto, troppo. 


E così arriva il mio sogno, la sera stessa, dopo la nostra conversazione. È la magia delle parole che hanno il potere di evocare, a volte di invocare. No, non sogno le persone con le mascherine. Il segno che questo momento storico ha lasciato in me va oltre, è il dono di un tempo prezioso. 


Mi sveglio con qualcosa di bello che vorrei poter restituire in un racconto, e comincio a scrivere, ma ad un certo punto mi fermo.
Dovevo imbattermi nel podcast di Selvaggia Lucarelli "Proprio a me"
 e dovevo riascoltare "La cura" di Franco Battiato.


Ecco, ora posso intuire tutto il disegno.


Sogno. 

Mi ha ferita, ancora una volta, a morte. Se n'è andato, dopo avermi umiliata davanti a tutti. Loro rimangono lì, e mi guardano con sdegno: questo è davvero troppo. Io non sono quello che vedo nei loro sguardi, che se ne vadano pure a fare in culo. Mi hanno preso tutto: ho permesso che lo facessero; mi sono lasciata usare, prosciugare, logorare, esaurire. Ma oggi me ne vado. Infilo il cappotto e prendo la borsa, in fretta e furia: non rimarrò un minuto di più in questo tossico nido di serpi. Sembra uno spogliatoio, il retro di una cucina, non lo so. Una situazione indefinita, dal vago sapore di passato, di pericolo scampato. O forse è dentro di me la minaccia dalla quale fuggo, e si è materializzata in questo strano quadro onirico. Si sa come sono i sogni: surreali, e assolutamente veri. 

Corro verso la stazione, salgo su un treno in partenza e sprofondo nel primo posto libero. Respiro piano, con il fiato corto per tenere a bada un magone che non va più né su né giù. Non posso mettermi a urlare, ma non ho neanche più voglia di piangere. 

Sento l'odore delle carrozze lasciate al sole, degli anni e della gente che sta tornando a casa, di tutti quelli che sono passati di qua. Tutto passa. Al sicuro, in questo vagone sgangherato, c'è solo una luce al neon tremolante e ingiallita, e il rumore della strada ferrata che passa sotto di me. Tutto passa. Non so dove andare, dove sto andando. Vorrei rimanere qui per sempre, raggomitolata su questo vecchio sedile. Chiudo gli occhi e mi lascio cullare dallo sferragliamento del convoglio sulle rotaie. Tutto passa. Sto scappando, e non tornerò indietro, stavolta. 

Mi sveglia una brusca e improvvisa frenata del treno, anche se ho la sensazione che sia stato qualcuno a scuotermi dolcemente la spalla. Scendo. 

Ricomincio a correre per le vie di una città sconosciuta, che potrebbe essere una città del nord Europa. C'è la luce dell'inverno lungo, l'ombra delle nuvole gonfie che minacciano pioggia. Eppure, potrei giurarci, quello che ho intravisto alla mia sinistra e seguo con la coda dell'occhio sembra proprio l'angolo dietro il quale mi trascinò, tenendomi per mano, la mia più grande infatuazione, tanti anni fa. È il muro contro il quale mi spinse per baciarmi e lasciarmi per l'ennesima volta nel languore di un miraggio. Gorizia. Sono già stata qui! Oppure no? Tuttavia non mi fermo a guardare quello che ho sperato fosse amore e non lo era. Vado avanti, corro, mi infilo in un portone. Sembra una chiesa, la cripta di una basilica italiana, forse toscana, con il suo negozietto di souvenir pieno di pensionati in gita appena scesi dal pullman. Fa caldo, c'è l'aria viziata dei luoghi affollati. Mi guardo intorno e tutto sembra normale, naturale: il brusìo di quelle persone si muove in tutta la sua spontaneità. Noto con stupore che nessuno porta la mascherina. Nemmeno io. Sono incredula, mi sento improvvisamente più leggera, e mi percorre un brivido di felicità. Ma non sono più abituata a questa calca, al tepore umidiccio che si attacca alla pelle. Così esco, e mi ritrovo in cima a una larga scalinata. Prendo un bel respiro a pieni polmoni, con gli occhi persi nello squarcio di cielo che si è aperto sopra di me. Non vedo il sole, deve essere dietro i palazzi più alti, ma l'aria è limpida come dopo un temporale di primavera all'imbrunire. Sorrido, mi sento finalmente bene. 


Ti vedo fra il brulicare della piazza. Sali i gradini reggendo un grande mazzo di fiori. Forse lavori qui, forse stai raggiungendo la tua compagna per farle una sorpresa. Che strano vedere un volto noto, in mezzo a tutta questa gente, in questa città che non conosco, che probabilmente nemmeno esiste. Ti faccio un cenno di saluto e tu mi sorridi, venendo deciso verso di me. Metti tra le mie mani quei bellissimi fiori (ma davvero? Non posso credere che siano per me!) e ti limiti a guardarmi negli occhi, pieno di benevolenza, comprensione, ammirazione. Forse amore? Non riesco neanche a dirti "grazie": questo maledetto nodo alla gola mi fa un male cane; e lo sento che stai cercando di allentarlo, per scioglierlo. 

Ti abbraccio. Ci abbracciamo a lungo, un abbraccio intenso come uno solo in vita mia. Non me lo sarei mai immaginata con te, dopo tutti questi anni; a dire il vero non ci avrei mai pensato neanche allora. E invece i nostri corpi sono così vicini che posso sentire una nuova vibrazione, un altro calore. Sembra la forza di attrazione di una calamita, una vertigine che mi sconquassa dentro; un balsamo miracoloso e lenitivo con cui mi accarezzi tutta, che mi riga il viso di lacrime, che tu asciughi con il pollice, gentile, mentre mi dici: "Ero venuto solo per questo".


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