Il vento


Era cresciuta con gli sputi
appoggiati ai seni,
dietro gli amaranti, non più sola,
li filtrava, per puro amore,
e così si addormentava,
come una sera dalla pelle placida,
ovunque la carne pesasse poco
o nulla.

"Era cresciuta con gli sputi", Laura Valentina Da Re, "La magrezza dell'Uno"

La magrezza dell'Uno


Quando ho scattato questa foto, appena dopo Natale, volevo solo fermare ancora una volta quella tenerezza che ho ritrovato nei versi di Laura, e che cerco disperatamente di trattenere nei suoi ultimi strascichi, con il rammarico di non essere riuscita a godermela pienamente quando era tempo. E qui potrei aggiungermi al coro delle mamme stanche, le cui voci si possono udire sul limitare di una disgrazia, per raccontare anche io di quanto sia stato difficile, per dire quello che effettivamente non dovrebbe essere più taciuto nel nome della madre ideale. 

Ma oggi tira un forte vento. Prima freddo, poi caldo, sempre inquieto.

Mia suocera ci aveva prestato un piccolo stereo per sentire la radio. Era sintonizzata su RDS con il volume al minimo. Al nido in ospedale era sempre accesa su quella stazione e speravo che potesse ripetere anche a casa il miracolo dei neonati che dormono. Neanche a dirlo fu assolutamente inutile allo scopo, tuttavia impresse nella mia memoria le canzoni di quel periodo. Questo è proprio il vento di sette anni fa, che faceva sbattere le fioriere in terrazzo con colpi sordi mentre io allattavo, cullavo, massaggiavo, cambiavo pannolini, camminavo su e giù, giù e su, su e giù, allattavo, accarezzavo il gatto (anima santa, lui era sempre con noi), massaggiavo e cullavo ancora, aspettando le luci dell'alba perché la notte di veglia finisse al più presto e il giorno mi potesse donare una parvenza di normalità, l'illusione di non essere privata a forza di qualcosa, tipo il meritato riposo. Il giorno avrebbe coperto quell'ingiustizia, quella violenza perpetrata nei miei confronti, con la carità della sua luce. E sssssssh, sssssssh... 

È il vento che cantava Tiziano Ferro solo per noi, dal piccolo apparecchio appoggiato sul pavimento.

Qui non piove più oramai

Cielo aperto, azzurro e poi

Spazi grandi e verdi tra noia e tranquillità

Ma forse tu nevicherai

E se si alzerà il vento

Lo vedremo scatenare

Le più alte onde in mare

E poi sarà tempesta

Sotto cieli un po' più veri

Sai, potremmo riposare

E ci darà di più di quello che c'è stato

E quello che è passato

E sarà tuo e mio

Vedrai se arriverà, che brezza porterà con sé

[...]

Pioverà e ti bagnerai

E non ti riparerai

E se mai nevicherà

Guarderemo scendere i suoi fiocchi

Giù e per sempre su quello che c'è stato

Su quello che è passato

Su e ancora

E tutto coprirà, e tutte le città

[...]

E tutto porterà con sé.

Provata dal parto, in un'altra me, in un nuovo mondo, non riuscivo ad alzarmi, avrei tanto voluto dormire. Non c'erano incombenze o faccende domestiche da sbrigare: ero in ospedale, ero appena diventata mamma. Non si trattava di quella stanchezza che si fa cronica con il passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, degli anni. Non ancora. Era una stanchezza assoluta, devastante, istantanea. E la puericultrice, con un sorriso rassicurante, mi disse che potevo alzare la spondina del letto e tenerla lì con me la mia bambina. Fu un grande sollievo. Vedo ancora le righe della mia camicia da notte che avvolgevano la tutina color panna della piccola, attaccata ad un seno abnorme adagiato sulle lenzuola. Fu in quel momento che realizzai che quella minuscola creatura era uscita da me, che era mia figlia. Era successo davvero: avevo partorito. E adesso?

Non potrò mai ringraziare abbastanza i professionisti che si sono presi cura di noi: ancora oggi ripensando a loro, alle loro parole, mi viene da commuovermi (a me!!). Sapevo che avrebbero fatto di tutto per aiutarmi. Del resto era per merito di un'ostetrica dolce e nerboruta insieme se ce l'avevo fatta. Non posso dire lo stesso del ginecologo di turno: non aveva fatto altro che terrorizzarmi, se potevo essere più impaurita. Lo scollamento delle membrane, l'ossitocina, i modi bruschi e il tono scocciato. Si chiamava Daniela l'ostetrica che, nonostante l'atmosfera pesante, arrivò, mi prese per mano e mi accompagnò all'appuntamento più importante della mia vita. La svolta, il miracolo, un angelo venuto a salvarci. Mi assicurai invece che alla visita per le dimissioni non ci fosse lui: non mi doveva toccare più. 

Guardavo ammirata le infermiere mentre armeggiavano con piccolissime dita, con piccolissimi corpi rossastri e itterosi. C'era una grande sapienza, c'era l'esperienza che noi mamme appena nate non avevamo. Noi non viviamo più in grandi case piene di bambini, nei cortili dove fin dalla tenera età si impara a trattare con i più piccoli, dove si ode sempre qualcuno cantare una ninna nanna. Dove, infine, i bambini sono parte naturalmente integrata della vita di tutti.

A casa i giorni successivi trascorsero sul divano: tre mesi di coliche e notti sul sofà con Aurora sopra il petto. Sono stata molto fortunata.

Neanche due anni dopo ero di nuovo lì in reparto maternità. Un'infermiera, visto il calo fisiologico della neonata, era arrivata in camera munita di bilancia. "Pesi la bambina prima e dopo ogni poppata". Mi diede l'aggiunta. Ma davvero? Dopo un allattamento ben riuscito alle spalle davvero stavo ripartendo da zero? Non ero più in grado di fare la mamma (non so se si sente l'ombra dell'inadeguatezza)? Nel pomeriggio una signora bionda che poteva essere mia madre fece sparire la bilancia: "Vedrai che arriva il latte". Giuro, non aveva ancora finito di pronunciare questa frase che sentii i seni scaldarsi e formicolare. Era bastato questo. Più tardi mi fissò con sguardo complice quando, dopo che mi aveva riportato la piccola dalla nursery, nella culla avevo trovato un succhietto. Io ne avevo uno già in borsa stavolta, ero arrivata attrezzata e in caso di estrema necessità non avrei esitato a tirarlo fuori, ma mai mi sarei aspettata che lo usassero loro l'oggetto del male. Mi fece cenno di non dirlo a nessuno, con un sorriso smaliziato, e mi parve di leggere fra le righe che era sollevata per il fatto che fosse successo con me, che non ero una novella. Ebbi la conferma che le verità assolute non esistono. Mi rilassai. La sera prelevò di nuovo la bimba per dei controlli di routine, e io mi addormentai beatamente. Se dopo il primo parto l'adrenalina mi aveva impedito di chiudere occhio, dopo il secondo, consapevole di quello che mi stava aspettando a casa, desideravo godermi quei giorni in ospedale. Saranno passate un paio d'ore e mi riconsegnò la culletta con il suo contenuto: "Pensavi di non venirtela più a riprendere? Madre snaturata!". Giuro, il tono non era denigratorio, quella signora aveva capito chi ero in quel momento, ci eravamo intese. Ridemmo di gusto, la ricorderò sempre con immenso affetto. Ma non posso non considerare che se mi avessero fatto la stessa battuta un paio di anni prima sarei potuta cadere nello sconforto. Lei però, ne sono certa, si stava proprio burlando della retorica della mamma perfetta. Lei è quella persona che tutte le puerpere dovrebbero avere accanto.

Tornai a casa e Irene per le prime notti dormì nel letto con me. Sono stata fortunata due volte.

Se mi guardo indietro mi sento una sopravvissuta, ma forse il mantello da supereroe non era proprio quello che volevo. Ci sono cascata anche io nella narrazione della mamma multitasking, e spesso mi sono trovata a fare le cose che fa una buona madre meccanicamente, per inerzia, perché si deve fare così. Sono davvero tenace quando mi ci metto, e credo che questa mia inclinazione mi abbia permesso di superare apparentemente illesa i primi anni da genitore. La verità è che da qualche parte la stanchezza, la frustrazione e la rabbia hanno covato latenti e sono andate a formare una massa ingombrante che ha iniziato a sanguinare tardivamente. Non è colpa della maternità in sé, penso che il fatto che mi abbia messa alle strette sia stato decisivo per la mia persona, e provo tanta riconoscenza per questo. È il contesto che non funziona. C'è qualcosa che non va, che non torna, che dovrebbe essere rivisto.

È tutto troppo veloce, troppo frenetico. Troppa informazione e poche mani. E ci vorrebbe un po' di più cuore. 

La mia mamma non capiva perché mi tormentassi per ogni cosa. Lei era diventata mamma giovanissima, forse questo le aveva permesso di rimanere più connessa all'istinto. C'era la nonna sempre con lei, tutto era stato spontaneo. Le notti insonni che le avevo fatto passare io se le ricorda, sì, ma è l'unica fatica che rammenta (non per niente l'astinenza dal sonno viene utilizzata come forma di tortura). 

È stata forte la mia mamma. In ospedale volevano a tutti i costi propinarle il latte artificiale mentre lei il colostro lo perdeva per i corridoi. Ci allattò di nascosto, negli orari prestabiliti che le mamme potevano passare con i propri bambini. Da un estremo all'altro, insomma; evidentemente ogni tempo ha le proprie teorie e le proprie falle. E a farci i conti sono sempre le donne, la loro carne, la propria integrità come persone.

Apprezzo l'inversione di rotta che c'è stata sul fronte ospedaliero, ma non può diventare un protocollo rigido uguale per tutte. Noi non siamo tutte uguali, non lo sono i nostri corpi, le nostre menti, i nostri vissuti. Ci vuole cuore per accudire un bambino, e ci vuole qualcuno che con il cuore accudisca una mamma.

Sono stata davvero fortunata, e sono molto grata alle persone speciali che ho avuto vicino e che ho incontrato, alle mamme con cui ho potuto confidarmi di notte, alle parole amiche di chi ci era passata prima. Una rete necessaria, che mi ha permesso di alleggerire il carico. Uno sfiato che ha eluso l'implosione in agguato. 

Oggi una poesia e una canzone mi restituiscono alcuni frammenti di bellezza ai quali mi sono aggrappata per farmi coraggio e mi permettono di continuare a custodirli con cura nella struggente nostalgia di quello che è stato e anche di quello che poteva essere. 

Il vento dell'inverno, non più insolente, mi colma di gratitudine.

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