L'ultimo sole

Abitiamo in un paesino sulle prealpi bellunesi. Non è uno di quei centri che si espandono nel tempo conservando il loro cuore di borgo. Qui gli edifici più vecchi sono stati a lungo abbandonati, e le case nuove sono spuntate come i funghi lungo la statale a partire dagli anni cinquanta. Sono tutte a pianta quadrata con il tetto spiovente, la porta al centro e quattro finestre sulla facciata, due a destra e due a sinistra, perfettamente simmetriche, come quelle che disegnano i bambini. Non si vedono quasi mai panni stesi fuori ad asciugare, e la vita è piuttosto silenziosa, discreta, riservata. Dove sono tutti, dove vanno? Non c'è una vera e propria piazza, ma ci sono un paio di bar, due pizzerie, un supermercato, qualche negozio, un parco, una bellissima chiesa e una canonica nuova di zecca dove non vive più neanche un prete. Vicino, una fontana dall'acqua miracolosa, capace di placare ogni sete al primo sorso, di guarire con qualche goccia fresca bernoccoli e ginocchia sbucciate. 


Durante il lockdown li osservavo dal terrazzo, i nonnetti che abitavano nella grande casa di fronte al nostro condominio. Avranno avuto su per giù ottant'anni, ma erano in forma: facevano l'orto insieme, lui trafficava di continuo sul retro con la legna e la moltitudine di attrezzi che teneva meticolosamente ordinati in garage. Li ho guardati con invidia qualche volta, perché nella loro lentezza, dentro i grembiuli da lavoro, potevano finalmente godere del momento presente, realizzare quanto era nelle loro possibilità senza affanno, impegni, scadenze, obblighi, per il solo gusto di fare. Si prendevano cura della loro grande casa, della quale non occupavano che poche stanze: una cucina, un bagno, una camera da letto. Prima del Covid passavano a trovarli i figli, alcuni parcheggiavano il camper di fianco all'orto per alcune settimane, e allora le finestre si aprivano tutte e sprigionavano vivacità, gioia, festa. Non so quanti fossero, li intravedevo sovrappensiero quando mi affacciavo a stendere il bucato, distratta come sempre. Non so nulla di loro, non so nulla di nessuno, in questa vita piena di fretta e malata di frenesia. 

In quarantena mi sono seduta sul balcone e ho pensato a quanto dovesse essere dura rimanere in due in un casermone così, con la televisione che annunciava continuamente morte e spaventi. I loro figli, i loro nipoti, dove abitavano? Chissà quanto sarebbe loro piaciuto poter stare nella grande casa tutti insieme in quel mese di follia. E pure, proprio in quel periodo si era fatto sentire prorompente un bisogno, fino ad allora stipato in qualche anfratto della mia anima, di spazio, d'aria, di silenzio, e ricordo di aver pensato anche che forse ci avrei voluto vagabondare un po' io in quelle ampie stanze vuote, responsabile unicamente di me stessa.

Finita la parentesi del 2020 tutti siamo tornati tutti a correre, imperturbabili, e sulla sedia fuori solo per guardare il cielo non mi ci sono messa più. 

Da qualche giorno c'è un via vai di auto e di gente nel cortile della grande casa, qualcuno vi si è fermato in pianta stabile. Dà nell'occhio vedere il parcheggio, dove prima cresceva solo qualche erbaccia, pieno a tutte le ore. Magari un figlio si è separato dal proprio coniuge ed è tornato alla base, o forse uno dei nonnetti sta poco bene e ha bisogno di assistenza. 
Oggi è arrivato un carro funebre. Il nonno trascina i piedi sparuto davanti alla porta di casa, tra un abbraccio e l'altro. 
Non è rimasto solo nella grande casa. Credo che alcuni familiari si siano trasferiti qui, chissà da dove. I bambini giocano, due cani scorrazzano incessantemente lungo la strada, la morte non ha vinto. Un uomo sulla cinquantina, forse uno dei figli, si liscia la lunga barba e sorride. È la vita.

Sono uscita a ritirare la biancheria, che si è incredibilmente asciugata in una mezza giornata: il clima è insolito per essere novembre, ma decisamente gradevole, e anche gli abitanti della grande casa si godono il pomeriggio. La palla batte sul canestro, l'uomo sulla cinquantina smonta la pedana sulla quale quest'estate aveva troneggiato placida una piscina, massimo godimento dei nipotini. Era stato molto bello sentire il loro vociare fino a ora di cena quando una mamma, una zia, li invitava a rincasare. Avrebbero ricordato per tutta la vita la lunga estate a casa dei nonni. 

Tira un fiato d'aria e la bambina più grande si avvicina al nonno, seduto su una sedia rivolto al sole. Da un lato pende un sacchetto di tela, di cura e decoro, dal quale fuoriesce una canula. Il signore barbuto interrompe il suo lavoro e accorre dal vecchietto, chiedendogli con premura se stia comodo, se non voglia un golfino sulle spalle, o girarsi un poco verso i bambini. Lui fa no con la testa, chiude gli occhi e seguita a scaldarsi le ossa. 
Io non li conosco, ma sento la pace che hanno nel cuore, la quieta serenità nei confronti della vita. Ammiro la presenza con la quale il papà gioca con i suoi bambini, la felicità dei cani, il sorriso del vecchio, che continua a stare, senza strazi né rimpianti, nel tepore dell'ultimo raggio di sole.





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