Il rumore non ci basta

Ci sarebbe ogni giorno un orrore da commentare, una causa da appoggiare. Ma non ci sta tanta malvagità dentro un cuore, e dietro l'angolo c'è sempre l'insidia della normalizzazione: ci si può abituare alla brutalità, sommersi come siamo dalle informazioni (più o meno attendibili), raramente foriere di una necessaria riflessione.

In queste settimane non sono riuscita a dire né pensare niente. Se non che non riesco a concepire le atrocità tutte, nessuna esclusa. Non mi capacito dei crimini di guerra, esattamente come non mi capacito di quelli per strada, per corruzione, o in famiglia. Non so come possa un essere umano infliggere crudeltà. Deve essere il punto massimo della disperazione, una disperazione cieca che fa esplodere tutto il male. Non lo so, davvero, non lo so. 
Ho ascoltato le notizie e i pareri di tutti, perché tutti hanno un parere riguardo alla vicenda. Ma mi sono tenuta a distanza, una distanza di sicurezza. Lo devo fare sempre per non stare male; in questo caso, così pericolosamente prossimo, è il mio inconscio che me lo ha imposto.

Fino a oggi, quando sono incappata nell'audio che Giulia aveva inviato alle amiche un mese antecedente la tragedia. Ora, sulle questioni dell'eticità e del rispetto nella divulgazione massiccia di materiali, sull'oscenità dei clickbait e degli sproloqui a seguire di taluni non mi pronuncio. Prendo solo coscienza dell'effetto che le parole di Giulia hanno avuto su di me. Hanno risuonato in me perché toccano il mio piccolo mondo, la mia piccola vita. 
Chi non si è trovato a lasciare un fidanzatə? Chi non ha vissuto gli strascichi di una relazione, dove si arriva a non sopportarsi più, dove sia arriva a non sopportarlə più, perché il senso di colpa, già soffocante di suo, se poi viene rivomitato addosso, diventa insostenibile? A qualcuno sarà successo di sentirsi rivolgere le stesse parole che Filippo rivolgeva a Giulia, lo stesso ricatto emotivo. "Mi uccido, non posso vivere senza di te, nulla ha più senso se non ho te"; io che non vivo più di un'ora senza te. Quanto sembra normale, quanto sembrano astratte e quasi innocue le parole dell'amore tossico, così trite nelle canzoni, nella poesia. Amore e morte. 
Con il senno di poi si fa presto a dire "doveva confidarsi con qualcuno, denunciare le sue paure", ma non lo aveva forse fatto Giulia? Chi crede davvero che ci sia un pericolo così grande in agguato? Chi pensa che la fine di un amore sia effettivamente il preludio alla fine di una vita? Certe cose si dicono quasi per dire, come un cliché: in realtà lo sappiamo che gli amori passano, si cade, ma anche che si guarisce, ci si rialza, funziona così. 
Eppure il timore esatto che ha provato Giulia in un angolo della sua mente, quello che l'ex partner potesse veramente farsi del male, pur non ritenendolo plausibile (perché no, perché no!), nella testa di quanti di noi si è insinuato almeno una volta? Qualcuno avrà avuto paura di uno stalkeraggio, di un pedinamento, ma confuso dal ricordo di tanto bene voluto non avrà creduto che ci fosse un rischio reale. Qualcuno adesso si sente attraversare dal brivido del pensiero che "potevo essere io, poteva succedere a me". 
Fortunatamente la maggior parte delle storie concluse non ha un esito così nefasto. Perché non si può rimanere infognati in un amore finito. 
E come mai non è più dato accettare che la sofferenza faccia parte del nostro essere umani, quando è l'unica cosa da fare per salvarsi, per andare avanti?
Cosa viene a mancare nell'anima di una persona, qual è l'ingranaggio che si rompe quando si perde la ragione? C'è un'immensa fragilità, l'assoluta incapacità di vivere un fallimento, un dispiacere. Ma cosa possiamo fare? 
Francamente ritengo che sia una pazzia credere di poter prevenire sul momento un potenziale delitto, perché ogni dolore, se vogliamo, è un potenziale delitto, a ogni passo ci può essere la minaccia di un raptus di follia. Dobbiamo forse attraversare la nostra esistenza guardandoci continuamente le spalle? Suona un po' come correre ai ripari in stato di emergenza, vivere in stato di emergenza. Che purtroppo non suona affatto nuovo, in ogni ambito, nella nostra epoca.

Gli antichi greci lo sapevano bene a che cosa serviva il teatro, nato dalla poesia: alla catarsi, ad attraversare le emozioni, a liberare l'anima dall'irrazionale. Non è che dopo lo spettacolo tragico poi tutti uscivano ad ammazzarsi o a trucidare il compagno, i figli, il primo che capita. Non c'era spettacolarizzazione, perché non era consentito rappresentare le scene di violenza né la morte sul palco: accadevano dietro le quinte, lontano dalla vista, a distanza di sicurezza, appunto; lontano dal nostro splatter. Era fondamentale trasmettere i valori (ed era ben chiaro quali fossero), c'era un tempo per lo spirito. Dove ci siamo perduti? 

Sì, la storia di Giulia si deve sapere, e non solo per attivare eventuali campanelli di allarme, ma soprattutto per recuperare la capacità di raziocinio, per ricordarci che dobbiamo andare a prenderci cura dell'anima, della nostra e di quelle che ci sono affidate, responsabilmente. Sarebbe opportuno poterlo fare con dignità. 

Non possiamo accontentarci del rumore, abbiamo bisogno di cuore.


Oreste inseguito dalle Erinni (“Il rimorso di Oreste”, opera di William-Adolphe Bouguereau, 1862) Wikipedia





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