Il pezzo di carta

Cercavo un cartellone per i bambini del catechismo e sono incappata nel mio papiro di laurea. Sacro e profano, insomma!

Quindici anni orsono, si era concluso un percorso, l'ennesimo iniziato un po' a caso. Perché mica tutti lo sanno che cosa vogliono fare da grandi: non alle medie, non alle superiori, a volte nemmeno a trenta, quarant'anni. È prerogativa di pochi eletti sentire la chiamata chiara di una vocazione in giovane età, o comunque a un certo punto. Il più delle volte l'angelo non chiama a gran voce, si limita a dirigere la lenta e silenziosa rivelazione del carattere. E il carattere non è quello che faccio, ma il modo come lo faccio (James Hillman, "Il codice dell'anima"). Si vive, dunque, ci si manifesta nelle piccole grandi cose di tutti i giorni, si coltivano passioni, ci si arrovella di domande; o ci si accontenta di sopravvivere. 

Anche questa era andata, una spunta segnata sulla canonica tabella di marcia. Mi sarei presa del tempo per riflettere sul da farsi, ma intanto potevo godermi il traguardo: mi meritavo di non sentire addosso la pressione del dopo, almeno per un po'. Ero in pausa, magari fino a Natale, o forse a tempo indeterminato. 

Risplendevano le lucine delle feste e i tramonti più belli di sempre: stavo bene come non mai. Sarà stato il sapore della libertà (da quale giogo poi mi ero slegata? Pagherei per chiudermi da qualche parte a studiare, adesso), sarà stato che il mio cuore era presente a me, a me soltanto. Mi sentivo pronta a vivere una grande avventura, e proprio qualche giorno più tardi ho incontrato quello che è diventato mio marito. Un po' per caso, di nuovo, l'avventura della vita, sicuro.

Nonostante il mio ostinato ancorarmi al mondo tangibile, ho continuato a farmi portare dal destino, a farmi guidare dalle coincidenze, a non andare fino in fondo, a non decidere. In due ci siamo fatti forza, ma io, io da sola, per me medesima, dove sarei andata? Dove mi sarei arenata?

Ho salvato la faccia con la creazione di una famiglia: se non avevo combinato niente con gli studi fatti, almeno per il sentire comune mi ero realizzata come donna, no? È questo poi che chiede la società, e la carriera per una madre è fra gli optional. Le conquiste individuali della femmina umana sono un'orpello trascurabile, quando hai l'onore (e l'onere) di diventare mamma, e non importa che quelle che ce la fanno siano costrette a sputare sangue per raggiungere i propri obiettivi. Io di obiettivi però non ne avevo, e mi ha fatto comodo, sono onesta, avere altro a cui pensare, almeno fino a quando una voce ha cominciato a sussurrare. Sta di fatto che nessuno ha più messo becco sulle mie non scelte, a posto così. Nel frattempo mi sono investita del ruolo che mi si addiceva, e ho onorato il mio lavoro 'qualunque', facendomi paladina di un operato che, chissà perché, spesso non viene riconosciuto come contributo prezioso al servizio di tutti. Servire, appunto; caffè, calici di vino nella condivisione delle gioie, assieme a una parola di conforto davanti ai dispiaceri. Annusare i trend umorali della gente, in quel posto di passaggio dove ci si trova, senza imbarazzo, a vuotare il sacco. E nemmeno lì, a dispetto dei residui patriarcali duri a morire, mi sono sentita inferiore; anche lì mi sono confrontata, come in tutta la mia vita, con uomini che mi consideravano alla pari. Sì, perché fin da quando ero piccola, non ho mai avuto il sentore di avere meno opportunità rispetto ai miei coetanei maschi: tutto era possibile un giorno, per tutti, in egual misura. Non mi sono resa conto della trama sotterranea che l'immaginario tesse intorno all'esistenza delle donne finché non ho procreato. Succede anche a chi per i più svariati motivi non lo fa: è un'assenza che diventa presenza, e si palesa nel mezzo del cammin prepotente e arrogante, in ogni caso. E senza distinzioni di sesso, a dire il vero: "Non è ora che ti sistemi?" se lo saranno sentito dire in molti, anche se il peso che grava sulle utero-dotate resta sempre smisuratamente maggiore.

Sono un'inguaribile ottimista, e fra il popolo, tra le generazioni che passano, lo vedo il cambiamento, lento ma inesorabile. Perché le mie figlie non dovranno essere succubi di idee che probabilmente sono incastonate nel DNA: anche i geni mutano. Le voglio liberissime e desiderose di studiare sempre, e poi di scegliere di percorrere mille strade, anche di andare a pulire cessi, purché lo facciano con passione (il carattere non è quello che faccio, ma il modo come lo faccio). Il proprio valore aggiunto si può esprimere in qualsiasi lavoro ben fatto, basta saper stare al mondo. Avranno quindi il diritto di sbagliare, indugiare, aspettare. Di non temere il tempo che se ne va, gli altri che corrono, la chiamata che non arriva. Perché arriverà, nelle forme più inaspettate.

Era un lavoro pesante e monotono, raccontava Dino Buzzati riguardo alle notti passate in redazione al Corriere della Sera, e i mesi passavano, passavano gli anni, e io mi chiedevo se sarebbe andata sempre così, se la grande occasione sarebbe venuta o no. Non lasciò mai il suo lavoro, gli odori della stampa, i quaderni scritti a mano, il microcosmo di colleghi. E mentre lavorava faceva progetti, sognava, creava. 

Abito in via Dino Buzzati, e alla sua intelligenza, alla sua gentilezza guardo, al suo modo di sognare con i piedi ben piantati a terra. 

Come 15 anni fa odio la burocrazia italiana, amo il prosecco, subisco il fascino della luce (soprattutto quando brilla nel buio), mando messaggi troppo lunghi, e Godot continua ad aspettarmi, anche se finalmente inizio ad intuire che cosa mai avesse da dirmi allora.







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