Notte di mezza estate
Un vagone, partito dal basso, con la forza di una rincorsa si arrampica su per le rotaie. Avanza, sempre più piano, la fatica della salita, sempre più grande, il peso, il rumore degli ingranaggi. Qualcosa potrebbe rompersi, sopporterà lo sforzo? Stacstac stac staac staaac staaaac! Arriva quasi in cima, rallenta fino a fermarsi. Un punto, un attimo, di stallo, di stasi; e poi giù, ancora, perché non è la prima volta, è un ciclo che si ripete. Scivola fino in fondo, e da lì ricomincerà l'ascesa.
È come una montagna russa il giro del sole, anche se sarebbe meglio dire che siamo noi a muoverci, perché la nostra stella sta; con i suoi flussi interni di combustioni, fusioni, lingue di fuoco che di tanto in tanto si allungano intorno, non fa altro che stare, immobile, al centro del suo sistema di pianeti. Così la realtà, sussiste indipendentemente da noi, mentre le ci arrabattiamo intorno. Siamo noi a cambiare di continuo, il sole è sempre lo stesso.
Ho inaugurato quello che viene chiamato il semestre della luce, l'entrata, l'inizio del semiciclo virtuoso (ma poi, chi lo ha deciso?), legato allo yang maschile per gli antichi cinesi, "porta degli dèi" per i greci, con uno schianto. Non fatale, evidentemente non era tempo, ma mi ha negato quel poco di slancio che mi avrebbe aiutato a partire, ad andare, a seguire l'invito del dio Giano (secondo i primi studi etimologici il suo nome deriverebbe dal verbo ire, "andare") che presiede le porte solstiziali. Un arresto forzato, interruzione improvvisa del semestre del buio, terra dello yin, humus naturale della mia persona.
Giano bifronte era una divinità romana, raffigurata con due volti: uno di giovane, l'inizio, uno di vecchio, la fine. Nessuna contraddizione, dunque, il dio delle porte rappresentava il passaggio (come suggerisce il significato della radice indoeuropea *ei-, da cui viene appunto il latino ire), la dualità, la complementarietà di due movimenti, la fine che è un inizio, l'inizio che già procede verso la fine. Un equilibrio perfetto di andirivieni.
Io però l'equilibrio ancora non l'ho trovato. In credito del femminile, mutilato, tranciato via dalla storia, delegittimato dalla forza di ciò che prevarica, sento troppo forte il bisogno di rivendicarlo.
Per questo amo il periodo che comincia proprio oggi, quando il sole si ferma, staziona un po' più a lungo in cielo, per poi ridiscendere: il solstizio d'estate (dal latino solstitium, composto da sol-, “sole” e -sistere, “fermarsi”). È la "porta degli uomini", la discesa agli inferi di Persefone, che percorre la sua strada dopo aver reso felice la madre, gli altri, nel rigoglio della primavera. L'immergersi nel profondo, il raccoglimento dell'introspezione, che è anche raccolto. Un periodo di pace, di quiete, urgente, necessario.
La linearità esclusivamente fattiva nella quale ci troviamo a vivere oggi, quel senso del tempo che progredisce inesorabile e retto, in una concatenazione di eventi (causa/effetto) che non ammette errori, deviazioni, ritorni, che arriva a non contemplare più nemmeno una fine, non mi appartiene. Non è mia perché ogni mese sperimento nel mio stesso corpo l'aumentare della tensione, una luna che cresce lentamente e, raggiunto il massimo della pienezza, comincia a sfaldarsi, si lascia deflagrare, un pezzettino alla volta, libera di essere sé stessa, con i suoi colmi e i suoi vuoti. Il sonno torna a farsi più sereno, posso finalmente allontanarmi dall'allucinato ed alienante martellare quotidiano. Ritrovo il mio posto, il posto dove stare bene, invece di barcollare su un filo tirato oltremisura.
Alla fine della valle non si vede quanto è lunga la sera, perché le montagne nascondono il cielo dell'ovest. Nella conca agordina invece la "V" del mio fiume lascia aperto uno spicchio di cielo, che proprio lì, dove si incunea in terra, mostra, mentre è già notte, i residui del tramonto di mezza estate: il mio varco preferito. Dietro monta il plenilunio, quasi pronto a sfiatare; un alito di fragola, respiro della vita vera.
❤️
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