Maggio odoroso

Nel weekend della fioritura dell'acacia, del sambuco e dei frassini tardivi, tutto il bene si sprigiona dalla terra e dalle radici.



Il maggio odoroso è incastonato fra le pieghe dell'anima. La mia pessima memoria mi costringe a cercare l'origine della locuzione ed eccolo, di nuovo, Giacomo Leopardi. È la seconda volta che lo incontro questa settimana: lo avrei voluto salutare insieme a Saba e Montale, includendo nell'abbraccio Camus, Sartre, Kierkegaard, Schopenhauer, Thomas Mann, Elsa Morante e Simon de Beauvoir, ma non ne ho il tempo. Studiare, approfondire, sottolineare le parole, metabolizzare. Non dico tutti gli stimoli che bussano alla porta del mio cuore, ma almeno qualcosa, qualche volta. Non si può proprio, in una vita a pieno regime. Mi accontento quindi di accogliere un sentire, di prendere due appunti, del piacere di qualche assaggio; forse basta, o almeno per oggi me lo devo far bastare. Grazie Matteo Saudino, per il sostrato balsamico che nutre questi giorni.



Rimanendo nel giro più stretto che posso permettermi, più o meno 25 anni fa io e mia sorella giocavamo a pallavolo sul filo da bucato dei vicini e poi ci stendevamo al sole, quello che scoppia improvvisamente a ridosso di maggio, fra i ponti festivi. Fiocchi di lanugine e semi volteggiavano nell'aria profumatissima, una danza perfetta (oggi sono anche i batuffoli che si aggregano ai peli dei gatti e si insinuano negli angoli delle stanze; come si corrompe lo sguardo!). Sicuramente erano quei fiori bianchi e morbidi che esplodevano come fuochi d'artificio sui frassini ad emanare l'intensa fragranza. Due o tre giorni, non di più, durava, l'avevo osservato negli anni. Gli alti frassini dietro casa rimangono il pretesto per tornare a un ricordo felice. Ero davvero felice, avevo una decina d'anni, l'età di Aurora, e adoravo la primavera. Provavo un amore panico per la natura, incontenibile. Scrivevo nel mio diario i nomi delle piante che ci insegnava la nonna, nel timore di dimenticare, e con il desiderio di fermare le immagini, di farle mie per sempre (non è cambiato niente). Un catalogo di cose belle da conservare, il mio tesoretto. Devo anche aver tentato un erbario, una volta. Ero un po' come la Mary del Giardino Segreto, negli orti dei nonni, fra i prati brulli e i boschi magici. Poi divenni la donzelletta di Recanati, che amai immediatamente alla follia sui banchi di scuola. Ero sempre in attesa, nelle attese mi crogiolavo: ne ero la regina. Maestra nel godimento del prima, riuscivo a trasformare l'adesso in qualcosa da ricordare con nostalgia, a patinare il tempo presente (che non necessariamente doveva essere speciale, anzi, spesso era ordinario, magagnoso come il quotidiano sa essere) con la stessa cifra stilistica, cosicché fosse pronto per essere archiviato nel passato. Ero io a plasmare la mia realtà. Cerco di farlo ancora, anche se non mi viene più così spontaneo: ci vuole un grande impegno. Perché c'è stato un tempo di mezzo, dopo i bucolici latini e la comunione estatica di D'Annunzio con la natura, dopo me che stavo sotto la pioggia a bere dai fiori di melo. C'è stata almeno una decade di oblio, l'età adulta che si è affacciata al mondo come lo conosciamo oggi. Sarei potuta vivere 500 anni fa, mentre costruivano la Certosa di Vedana, in una casetta vicino alla sorgente; o il secolo scorso, a raccogliere "sciochet" e "briscandoi" per la frittata, a preparare un decotto di tarassaco, a filtrare lo sciroppo di sambuco. Tre soffici galline nel cortile, il gatto accimabellato nel fienile, un bagno rinfrescante nel Cordevole. Sarebbe stato assolutamente pensabile, prima: non eravamo ancora così distanti dall'umanità che ci aveva preceduti, tramandata di generazione in generazione (mi riferisco solo alla capacità degli esseri umani di vivere in modo semplice e rispettoso sulla Terra, ovviamente). Poi mi sono disconnessa, mi sono confusa. Alienata, sedata, proiettata nello spazio globale, nelle cose che si devono fare ma non si sa più bene come; nel troppo, che dopo la genitorialità è diventato davvero sfidante. Non so se alle bambine interessa che noi donne delle ultime case del Peron andavamo per queste stesse strade a piedi e ci fermavano sotto il colle di San Gottardo a bere un gingerino dalle amiche della nonna e della Fergi. Se ricorderanno il profumo delle rose e delle peonie. Se immaginano la vecchierella che abitava in quella casetta ("Sì che me la ricordo, ve lo assicuro!"), quando il glicine si arrampicava sui muri senza chiudere le finestre. Sono ripetitiva a volte, perché voglio essere sicura che mi ascoltino. E loro mi ascoltano! Ogni anno a maggio, infatti, sentono il richiamo dei fiori di sambuco, ineluttabile: raccoglierlo è una necessità.

maggio 2020



La primavera negli ultimi anni è diventata un susseguirsi di mesi densi di attività, appuntamenti; di notti che si accorciano, di virus e herpes che si nutrono della stanchezza. Ho iniziato a concentrarmi sulla fatica dello sbocciare piuttosto che carpirne la bellezza. La primavera è diventata uno sforzo, qualcosa da sopportare in attesa del solstizio d'estate. Eppure mi sono ostinata a raccogliere i fiori di sambuco anche nei momenti peggiori, sotto il temporale, a sera. Mi ci sono proprio aggrappata sapendo che sarebbero venute le ore buone, la disposizione d'animo propizia. La primavera sarebbe tornata, piano piano.





Un signore raccoglie dei grappoli simili al maggiociondolo, solo che sono bianchi anziché gialli. "Ma sì, sono i fiori di acacia! La nonna li faceva pastellati e fritti! Il loro sapore assomiglia a quello dei fiori di zucca". E allora li assaggiamo subito, così, appena staccati dall'albero: dolci e teneri come le primizie; futuro miele, se il sole tiene. L'uomo delle robinie non ha mai smesso gli antichi saperi, non si è fatto travolgere dall'indolente ignoranza del post modernismo.



E noi, mentre combattiamo con distrazioni di ogni tipo, lo sentiamo l'impulso che viene dalle radici, l'afflato ancestrale dell'essere umano che vuole ritrovare il paradiso terrestre. 




Sostrato:

BarbaSophia podcast

"Anime fragili", Matteo Saudino

Commenti

  1. Molto bello il racconto !......"il saliscendi bianco e nero dei balestrucci dal palo del telegrafo al mare, non conforta i tuoi crucci su lo scalo, né ti riporta dove più non sei.
    Giá profuma il SAMBUCO fitto su lo sterrato;il piovasco si dilegua.
    Se il chiarore é una tregua,la tua cara minaccia la consuma " Eugenio Montale ( da "Le occasioni")

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